Pire per i cadaveri.
Nelle ultime settimane, una pestilenza si è insinuata tra le file dei greci, uccidendo dapprima asini e cani, poi un soldato qui, un servitore là, finché all’improvviso negli ultimi dieci giorni è diventata un’epidemia che ha mietuto più eroi achei e danai di quanto non abbiano fatto in mesi di guerra i difensori di Ilio. Secondo me, si tratta di tifo. I greci sono convinti che sia la collera di Apollo.
Ho visto da lontano Apollo, nell’Olimpo e qui, e mi è parso un tipo irascibile e pericoloso. È il dio arciere, il signore dell’arco d’argento, "colui che colpisce da lontano"; e se da un lato è il dio delle guarigioni, dall’altro è anche il dio delle malattie. Per giunta, è il principale alleato divino dei troiani in questa guerra e, se potesse fare di testa sua, gli achei sarebbero spazzati via. Sia che il tifo provenga dai fiumi contaminati dai cadaveri e da altre acque inquinate, sia che abbia origine dall’argenteo arco di Apollo, i greci non sbagliano a pensare che il dio ce l’abbia a morte con loro.
In questo momento "i signori e i sovrani" achei (e ognuno di questi eroi greci è una sorta di sovrano o di signore nel proprio paese e ai propri occhi) si radunano in pubblica assemblea nei pressi della tenda di Agamennone per decidere come porre fine alla pestilenza. Vado lentamente da quella parte, quasi con riluttanza, anche se, dopo più di nove anni d’attesa, stanotte dovrei assistere al momento più emozionante del mio lungo periodo d’osservazione della guerra di Troia. Stanotte l’Iliade di Omero inizia realmente.
Oh, ho visto molti elementi del poema di Omero poeticamente spostati nella sequenza temporale, come il cosiddetto "catalogo delle navi", l’enumerazione di tutte le forze greche, che si trova nel Libro secondo dell’Iliade, ma che ho visto verificarsi più di nove anni fa, durante l’adunata per questa spedizione militare, nell’Aulide, lo stretto fra l’Eubea e la penisola greca. Oppure l’epipolesis, la rassegna dell’esercito, che Agamennone fa nel Libro quarto del poema epico di Omero, ma che ho visto accadere poco dopo lo sbarco, qui, nei pressi di Ilio. All’evento reale era seguita quella che nelle lezioni chiamavo teichoskopia, l’osservazione dalle mura, quando Elena indica a Priamo e agli altri condottieri troiani i vari eroi achei. La teichoskopia compare nel Libro terzo del poema, ma nel reale dipanarsi degli eventi ha avuto luogo poco dopo lo sbarco e l’epipolesis.
Ammesso che esista davvero un reale dipanarsi degli eventi.
A ogni modo, stanotte c’è l’assemblea alla tenda di Agamennone e lo scontro fra Agamennone e Achille. È l’inizio dell’Iliade e dovrebbe essere il punto focale delle mie energie e capacità professionali, ma la verità è che non me ne frega un tubo. Gonfino pure il petto, diano pure in escandescenze. Achille metta pure mano alla spada… be’, su questo particolare sono curioso, lo confesso. Atena comparirà davvero a fermare Achille? O era solo una metafora per indicare che il buonsenso di Achille ha la meglio? Ho atteso tutta la vita per avere una risposta a questa domanda e nel giro di qualche minuto sarei soddisfatto, ma, è strano, non… me… ne… frega… un… tubo. Irrevocabilmente.
I nove anni di penosa rinascita e di lento ritorno della memoria, di guerra continua e di continui atteggiamenti eroici, per non parlare della mia stessa condizione di schiavo degli dèi e della Musa, hanno preteso un tributo. Per me, in questo momento, non farebbe alcuna differenza se comparisse un B-52 e sganciasse una bomba atomica su greci e troiani insieme. Al diavolo tutti questi eroi e i loro cocchi di legno.
Invece mi dirigo a passi pesanti verso la tenda di Agamennone. È il mio lavoro. Se non assisto alla scena e non faccio rapporto alla Musa, non perdo sempHcemente un incarico. Gli dèi mi ridurranno ai frammenti d’osso e al polveroso DNA da cui mi hanno ricreato. E, come si dice, questo è quanto.
2
COLLINE ARDIS, VILLA ARDIS
Daeman si faxò e si materializzò nei pressi della casa di Ada e, come un idiota, batté le palpebre al sole rossastro all’orizzonte. Non c’erano nubi e il tramonto ardeva fra gli alti alberi sul crinale e infiammava l’anello-p e l’anello-e che giravano nel cielo cobalto. Daeman era disorientato perché lì era sera, mentre era mattino solo un secondo prima, quando si era faxato da Ulanbat, dove aveva partecipato alla festa per la seconda Ventina di Tobi. Erano anni che non veniva a trovare Ada e a differenza di quanto gli accadeva per le regolari visite alle amiche (Sedman a Parigi, Ono a Bellinbad, Risir nella sua abitazione sulle scogliere di Chom e qualche altra) non sapeva in quale continente e in quale fuso orario si sarebbe trovato. Ma tanto non sapeva nemmeno il nome e la posizione dei continenti, per non parlare della geografia e dei fusi orari, perciò il fatto stesso di non saperlo per lui non aveva senso.
Permaneva il disorientamento. Daeman aveva perduto un giorno. O lo aveva guadagnato? Comunque, lì l’aria aveva un odore diverso: più umido, più ricco, più selvaggio.
Daeman guardò in giro. Era al centro di una normale piattaforma di nodo fax, il solito cerchio di permacemento e di eleganti pali di ferro sormontati da una pergola di cristallo giallo e un palo centrale con l’immancabile scritta in codice che lui non sapeva leggere. Nella valle non c’erano altre costruzioni, solo erba, alberi, il rumore di un lontano ruscello, in alto i due anelli in lenta rivoluzione, ortogonali tra loro come l’armatura di un grande giroscopio.
La sera era calda, più umida che a Ulanbat, e la piattaforma fax si trovava al centro di un prato erboso circondato da basse colline. A sei metri dalla piattaforma circolare c’era un vetusto calessino aperto, a due posti, monoruota, e un altrettanto vetusto servitore librato sopra il posto di guida, oltre a un voynix in piedi fra le stanghe di legno. Erano più di dieci anni che Daeman non veniva in visita a villa Ardis, ma ora ricordò quanto fosse barbaro e scomodo il servizio. Assurdo, non avere la propria casa in un nodo fax.
«Daeman Uhr?» domandò il servitore, anche se sapeva ovviamente chi era il nuovo venuto.
Daeman borbottò un assenso e gli tese la malandata valigia a soffietto. Il piccolo servitore si librò più vicino, prese fra le pinze imbottite la valigia e la caricò nel bagagliaio di tela del calessino. Daeman salì a bordo. «Aspettiamo altri?»
«Lei è l’ultimo ospite» rispose il servitore. Occupò, ronzando, la nicchia emisferica e azionò un comando; il voynix si attaccò alle aste del calessino e iniziò a trotterellare verso il sole al tramonto. I suoi piedi rugginosi e la ruota del calessino sollevavano pochissima polvere sulla ghiaia della carreggiata. Daeman si accomodò sul sedile di cuoio verde, posò le mani sul pomo del bastone da passeggio e si gustò la corsa.
Non era lì per fare visita a Ada, ma per sedurla. Non faceva altro, se non sedurre giovani donne. E collezionare farfalle. A Daeman non importava che Ada fosse sui venticinque anni e che lui s’avvicinasse alla seconda Ventina. E neppure che Ada fosse sua prima cugina. Il tabù dell’incesto si era eroso da moltissimo tempo.
Daeman non aveva neppure una pallida idea del concetto di "deriva genetica", ma se avesse saputo che cosa riguardava, avrebbe lasciato che lo spedale sistemasse tutto. Lo spedale sistemava qualsiasi cosa.
Daeman era stato a villa Ardis dieci anni prima, in qualità di cugino (e di possibile seduttore dell’altra cugina di Ada, Virginia, giusto per ammazzare il tempo, perché Virginia aveva l’avvenenza di un voynix), e proprio allora aveva visto per la prima volta Ada nuda. Mentre percorreva uno dei lunghissimi corridoi di villa Ardis in cerca della serra dove sarebbe stata servita la prima colazione, era passato davanti alla stanza della ragazza: la porta era socchiusa e, riflessa in un alto specchio deformato, c’era Ada, che con una spugna si lavava da una catinella e indossava solo un’espressione un po’ annoiata (Ada aveva molte qualità, che però non comprendevano l’eccessiva cura per l’igiene, aveva scoperto Daeman). Nel vedere la sua immagine riflessa, una giovane donna appena emersa dalla crisalide dell’adolescenza, si era fermato, lui, un uomo adulto appena un po’ più vecchio di quanto non fosse Ada adesso.