Le centinaia di guerrieri intorno a me trattengono il fiato quasi all’unisono: sono sconvolti dalla promessa di una maledizione, più di quanto non lo sarebbero stati se Achille avesse ucciso Agamennone come un cane.
«Ti giuro che un giorno tutti i figli d’Acaia rimpiangeranno che non ci sia più Achille» grida l’uccisore di uomini, con voce così forte da far interrompere le partite a dadi nella città di tende distante un centinaio di metri. «Tutti loro, tutti gli eserciti qui raccolti! Ma, allora, con tuo cruccio, Arride, non avrai potere di salvarli, falciati come steli di grano da Ettore sterminatore di guerrieri. E quel giorno ti strapperai il cuore e lo morderai, disperato, per la rabbia d’avere fatto un simile insulto al migliore di tutti gli achei.»
E con questo Achille fa perno sul suo celebre tallone, si gira, si allontana dal cerchio e con scricchiolio di ghiaia torna nel buio fra le tende. Come uscita di scena è, lo ammetto, davvero spettacolare.
Agamennone incrocia le braccia e scuote la testa. Altri parlano con tono sconvolto. Nestore viene avanti e ci propina il solito discorso su come eravamo tutti uniti nella guerra contro i centauri. Qui c’è una discrepanza: Omero dice che, quando interviene Nestore, Achille è ancora presente. Da bravo scoliaste, prendo nota; ma la mia attenzione è molto, molto lontano.
Proprio in questo istante, ricordando lo sguardo omicida di Achille ad Atena, l’attimo prima che lei lo afferrasse per i capelli e lo costringesse a cedere, mi viene in mente un piano d’azione così audace, così chiaramente destinato a fallire, così suicida, così meraviglioso, che per un minuto fatico a prendere fiato.
«Biante, ti senti bene?» mi chiede Oro, fermo accanto a me.
Lo guardo con occhi vacui. Per un minuto non ricordo chi sia lui né chi dovrebbe essere "Biante", il guerriero in cui mi sono morfizzato. Scuoto la testa e mi faccio strada, lontano da quella folla di gloriosi uccisori.
La ghiaia mi scricchiola sotto i piedi senza l’eroica eco riservata all’uscita di scena di Achille. Mi dirigo verso il mare e, appena fuori vista, mi spoglio dell’identità di Biante. Chi mi vedesse adesso, avrebbe davanti a sé un uomo di mezz’età, Thomas Hockenberry, occhiali e tutto, nel ridicolo armamentario di un soldato acheo, lana e pelliccia sopra l’equipaggiamento morfico e il giubbotto protettivo.
Il mare è scuro. "Scuro come vino" penso, ma la citazione non mi diverte.
Provo, non per la prima volta, l’impellente impulso di usare la facoltà mimetica e la bardatura di levitazione per volare lontano da qui, sorvolare Ilio un’ultima volta, guardare dall’alto le torce e i cittadini destinati alla rovina, e poi dirigermi a sudovest sopra quel mare scuro come vino, l’Egeo, fino alle isole e alla terraferma che in futuro saranno la Grecia. Potrei controllare come stanno Clitennestra e Penelope, Telemaco e Oreste. Il professor Thomas Hockenberry, già fin da ragazzo, si è sempre trovato meglio con donne e bambini, anziché con uomini adulti.
Ma in questa futura Grecia, donne e bambini sono più micidiali e sanguinari di qualsiasi adulto Hockenberry abbia conosciuto nell’altra sua incruenta vita.
"Rimanda il volo a un altro giorno" mi dico "anzi, non pensarci più."
Le onde rotolano a riva una dopo l’altra, rassicuranti nella loro ben nota cadenza.
Farò così. La decisione mi provoca l’euforia del volo… no, non del volo, ma di quel breve istante di brivido a gravità zero che provi quando ti lanci dall’alto e sai di non poter tornare indietro. Vai a fondo o nuota, precipita o vola.
Farò così.
4
NEI PRESSI DI CONAMARA CHAOS
Il sommergibile del moravec Mahnmut di Europa precedeva di tre chilometri il kraken e continuava a distanziarlo. Il piccolo Mahnmut, una creatura artificiale parzialmente organica, si sarebbe dovuto sentire rassicurato; invece era tutt’altro che tranquillo, perché i kraken spesso estendono i tentacoli fino a cinque chilometri.
Era una scocciatura. Peggio, una distrazione. Mahnmut aveva quasi terminato la nuova analisi del Sonetto 116, era ansioso d’inviarla per e-mail a Orphu su Io e ci mancava solo che il kraken inghiottisse lui e il sommergibile. Lanciò un impulso sonar per misurare la distanza dal kraken, verificò che l’enorme e affamata massa gelatinosa lo inseguiva ancora con un furioso agitare di tentacoli, poi si interfacciò con il reattore per il tempo necessario ad aumentare di altri tre nodi la velocità dell’imbarcazione.
Il kraken, che pareva un pesce fuor d’acqua, così lontano dai suoi abissi naturali e così vicino alla regione di Conamara Chaos e ai canali sgombri, agitò i tentacoli per non restare indietro. Finché mantenevano la stessa velocità, pensò Mahnmut, il kraken non sarebbe riuscito a estendere del tutto i tentacoli e a inghiottire il sommergibile; ma se il piccolo sottomarino avesse incontrato un ostacolo, per esempio un grosso banco di fuchi lampo, e avesse dovuto rallentare o peggio ancora si fosse impigliato in quei luminosi filamenti di sostanza appiccicosa, allora il kraken si sarebbe gettato su di lui come un…
«Oh, be’, maledizione» disse Mahnmut, lasciando perdere il tentativo di trovare la similitudine appropriata e parlando ad alta voce nel silenzio della ristretta nicchia ambientale del sommergibile. I suoi sensori erano collegati ai sistemi dell’imbarcazione e gli occhi virtuali gli mostrarono, più avanti, grossi grumi di fuchi lampo. Le luminose colonie seguivano le correnti isoterme per cibarsi delle rossastre vene di solfato di magnesio che salivano fino alla banchisa come tante radici insanguinate.
Mahnmut pensò: "Immersione", e il sommergibile scese di venti chilometri, evitando solo di qualche decina di metri le più basse colonie di fuchi lampo. Il kraken si tuffò all’inseguimento. Se fosse stato capace di ridere, in quel momento avrebbe riso di gusto: quella era la profondità perfetta per uccidere la preda.
Con riluttanza Mahnmut cancellò dal proprio campo visivo il Sonetto 116 ed esaminò le varie possibilità. Sarebbe stato imbarazzante finire divorato da un kraken a meno di cento chilometri da Conamara Chaos Central. Colpa dei maledetti burocrati: avrebbero dovuto ripulire dai kraken quel tratto di mare, prima di convocare in riunione un loro esploratore moravec.
Poteva uccidere il kraken, certo. Ma non c’erano sommergibili di raccolta nel raggio di mille chilometri e il magnifico animale sarebbe stato ridotto a brandelli e divorato dai parassiti delle colonie di fuchi lampo, dagli squali salmastri, dalle serpule libere e da altri kraken, molto prima dell’arrivo di un raccoglitore della compagnia. Sarebbe stato davvero uno spreco.
Mahnmut si scoEegò dalla vista virtuale il tempo necessario per dare un’occhiata in giro alla nicchia, come se dall’ingombra realtà potesse ricavare un’idea. Ebbe successo.
Sul banco di comando, insieme al volume delle opere di Shakespeare, rilegato in pelle, e all’analisi della Vendler, c’era la Lava Lamp, avuta in regalo dal suo vecchio compagno moravec Urtzweil, quasi venti anni terrestri prima.
Mahnmut sorrise e tornò in vista virtuale su tutte le ampiezze di banda. Così vicino a Chaos Central ci sarebbero stati di sicuro dei diapiri e i kraken detestavano i diapiri.
Infatti. Quindici chilometri a sud-sudest un’eruzione di diapiri si alzava lentamente verso la calotta di ghiaccio, con lo stesso languido movimento delle bolle nella Lava Lamp. Mahnmut puntò verso il diapiro più vicino in salita verso un canale sgombro e accelerò di altri cinque nodi solo per stare sul sicuro, ammesso che si possa essere al sicuro nel raggio d’azione dei tentacoli di un kraken adulto.
Un diapiro non era altro che una bolla di ghiaccio riscaldato dalle bocche vulcaniche e dalle zone calde gravitazionali, molto più in basso, che risaliva nel mare di sale inglese verso la calotta di ghiaccio che un tempo copriva il cento per cento di Europa e che adesso, millequattrocento anni terrestri dopo l’arrivo della compagnia di lavoratori criorobot, rivestiva ancora più del novantotto per cento del satellite. Quel diapiro aveva un diametro di circa quindici chilometri e aumentava velocità a mano a mano che risaliva verso la calotta di superficie.