I kraken non amavano le proprietà elettrolitiche dei diapiri. Si rifiutavano di sporcare con quella robaccia anche solo i tentacoli sonda, per non parlare delle braccia assassine e delle fauci.
Il sommergibile di Mahnmut raggiunse la bolla dieci chilometri buoni prima del kraken inseguitore, rallentò, morfizzò lo scafo esterno per resistere all’impatto, ritrasse sensori e sonde e penetrò nel globo di ghiaccio sciolto. Mahnmut usò sonar e sensori esterni per controllare gli strati lenticolari e i canali di navigazione ancora ottomila metri più in alto. Nel giro di qualche minuto il diapiro stesso si sarebbe spiaccicato contro la spessa calotta di ghiaccio, sarebbe risalito da fenditure, strati lenticolari e canali sgombri e avrebbe proiettato a cento metri d’altezza un getto di fanghiglia di ghiaccio. Per un breve periodo quella parte di Conamara Chaos sarebbe stata simile al parco di Yellowstone dell’America dell’Età Perduta, con i geyser di zolfo rosso e le sorgenti calde. Poi la scia di spruzzaglia si sarebbe dispersa nella gravità di Europa, un settimo di quella terrestre, e sarebbe ricaduta, come una tempesta di fango alla moviola, per chilometri ai due lati di ogni strato lenticolare superficiale; quindi si sarebbe ghiacciata nella sottile atmosfera artificiale, cento millibar in tutto, aggiungendo ai già torturati campi di ghiaccio altre forme simili a sculture astratte.
Mahnmut non poteva essere ucciso in senso letterale (pur in parte organico, "esisteva", non "viveva", ed era progettato in modo che fosse resistente) ma non ci teneva proprio a diventare parte di uno schizzo o di una scultura astratta congelata per i prossimi mille anni terrestri. Per un minuto dimenticò sia il kraken sia il Sonetto 116 e si concentrò sui calcoli (velocità di salita del diapiro, avanzata del sommergibile nella fanghiglia, rapido avvicinamento della calotta glaciale) e poi trasmise gli ordini alla sala macchine e alle casse di zavorra. Se funzionava, sarebbe uscito sul lato sud del diapiro, mezzo chilometro prima dell’impatto con il ghiaccio, e sarebbe andato avanti tutta, facendo un’emersione d’emergenza proprio mentre l’onda di marea del getto del diapiro veniva compressa nel canale sgombro. Allora avrebbe sfruttato l’accelerazione di cento chilometri all’ora per mantenersi più avanti dell’effetto geyser (in pratica usando il sommergibile come una tavola da surf per metà della distanza da Conamara Chaos Central). Avrebbe dovuto fare in superficie gli ultimi venti chilometri fino alla base, mentre l’onda di marea si dissipava, ma non aveva scelta. Sarebbe stata un’entrata in scena spettacolare.
A meno che un ostacolo non bloccasse il canale, più avanti. A meno che un altro sommergibile in arrivo da Conamara Chaos Central non occupasse il canale. Ci sarebbe stato qualche secondo d’imbarazzo, poi Mahnmut e il Dark Lady sarebbero stati distrutti.
Almeno il kraken non sarebbe stato più un fattore di pericolo. Quelle creature non salivano mai a meno di cinque chilometri dalla calotta di ghiaccio.
Immessi tutti i comandi, consapevole d’avere fatto il possibile per sopravvivere e giungere in tempo alla base, Mahnmut tornò a dedicarsi all’analisi del sonetto.
Il sommergibile di Mahnmut (battezzato molto tempo prima The Dark Lady) percorse gli ultimi venti chilometri fino a Conamara Chaos Central in un canale largo mille metri, navigando in superficie il nero mare sotto il cielo nero. Giove si levava, per tre quarti, con nubi luminose e strisce intorbidite di colori soffusi, mentre il minuscolo Io correva velocemente davanti alla faccia del gigante che sorgeva non molto sopra l’orizzonte. Ai lati del canale, dirupi di ghiaccio striato si alzavano per varie centinaia di metri, ripide pareti di un grigio opaco e di un rosso smorzato contro il cielo nero.
Mahnmut richiamò con entusiasmo il sonetto di Shakespeare.
Sonetto 116
Nel corso dei decenni Mahnmut era giunto a odiare quel sonetto. Era il tipo di poesie che gli esseri umani recitavano alle feste nuziali, nella lontana Età Perduta. Era servile. Era scadente. Non era buon Shakespeare.
Ma la scoperta di microregistrazioni con i saggi critici di una certa Helen Vendler, un critico vissuto nel diciannovesimo o ventesimo o ventunesimo secolo (la data era incerta) aveva dato a Mahnmut una chiave d’interpretazione. E se il Sonetto 116 non fosse stato, come si era sostenuto per tanti secoli, una riluttante dichiarazione, ma una confutazione violenta?
Mahnmut riguardò le "parole chiave" annotate, in cerca di sostegno. Eccole lì, da ogni verso: "non, mai, non, non, mai, non" e poi, nel verso 14, "mai, mai", un’eco del nichilista "mai, mai, mai, mai, mai" di Re Lear.
Decisamente una poesia di confutazione. Ma confutazione di che cosa?
Mahnmut sapeva che il Sonetto 116 faceva parte del ciclo del "Young Man", il Giovane, ma sapeva pure che l’espressione "Young Man" era poco più d’una foglia di fico aggiunta nei più bigotti anni successivi. Le poesie d’amore non erano inviate a un uomo, ma "all’adolescente"… di sicuro un ragazzo, probabilmente non più che tredicenne. Mahnmut aveva letto la critica della seconda metà del ventesimo secolo e sapeva che quegli "studiosi" interpretavano i sonetti in senso letterale, cioè come veri messaggi omosessuali del drammaturgo; ma sapeva anche, da lavori critici più approfonditi in epoche precedenti e nell’ultima parte dell’Età Perduta, che un’interpretazione letterale così politicamente motivata era puerile.
Nei sonetti Shakespeare aveva strutturato un dramma, Mahnmut ne era sicuro. "L’adolescente" e la successiva "Dark Lady", la Dama bruna, erano personaggi di quel dramma. I sonetti, avevano richiesto anni di scrittura, non erano nati nella foga della passione, ma creati da uno Shakespeare maturo e perfettamente consapevole. E cosa esplorava, il poeta, in quei sonetti? L’amore. E quali erano le "reali opinioni" di Shakespeare sull’amore?
Nessuno l’avrebbe mai saputo: Mahnmut era sicuro che il Bardo fosse troppo furbo, troppo cinico, troppo guardingo perfino per manifestare i suoi veri sentimenti. Ma, tragedia dopo tragedia, Shakespeare aveva mostrato come i sentimenti intensi, amore compreso, mutavano le persone in tanti "buffoni". Shakespeare, come Lear, amava i suoi Buffoni. Romeo era il Buffone della Fortuna, Amleto il Buffone del Destino, Macbeth il Buffone dell’Ambizione, Falstaff… be’, Falstaff non era il Buffone di nessuno, ma divenne Buffone per amore del giovane principe Hal e morì di crepacuore quando fu da lui abbandonato.
Mahnmut sapeva che il "poeta" nel ciclo di sonetti, a volte indicato come "Will", non era (malgrado l’insistenza di tanti superficiali studiosi del ventesimo secolo) il William Shakespeare storico, ma era invece un’altra figura drammatica creata dal drammaturgo poeta per esplorare tutte le sfaccettature dell’amore. E se quel "poeta" fosse stato, come lo sventurato conte Orsino, il Buffone dell’Amore? Un uomo innamorato dell’amore?