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«La notte seguente, sapendo che mi sarebbe occorso un alleato perché non avrei potuto combattere e nello stesso tempo portare la pesante pietra del Palladio, inclusi Diomede nel mio piano. Insieme, nel cuor della notte, il figlio di Tideo e io scalammo e scavalcammo il muro, uccidendo con una freccia ben centrata la nuova sentinella. Poi percorremmo rapidamente vie e vicoli, senza ripetere la recita dello sciocco schiavo frustato, quella notte, ma eliminando invece, con efficienza e in silenzio, chiunque ci fermasse; ed entrammo nel palazzo di Priamo, da una fognatura segreta che Elena mi aveva spiegato come trovare.

«A Diomede, uomo orgoglioso come tanti di quegli eroi dalla testa dura giunti da Argo, non piaceva guadare una fogna per niente al mondo, nemmeno per garantire la caduta di Ilio. Protestò e brontolò e si arrabbiò e si lamentò e divenne di umore davvero orribile, quando unimmo insulto a ingiuria, dovendo risalire il foro di uno dei cessi delle latrine nello scantinato del palazzo, dove si trovavano le stanze del tesoro di Priamo, fra le camerate delle guardie scelte.

«Eravamo furtivi, ma il puzzo ci precedeva; così fummo costretti a uccidere le prime venti guardie che incontrammo nei corridoi; la ventunesima ci mostrò come aprire la porta della stanza del tesoro senza far scattare allarmi o altre trappole; poi Diomede tagliò la gola anche a quella.

«Oltre a tonnellate d’oro, montagne di pietre preziose, cumuli di perle, pile di tessuti intarsiati, bauli di diamanti e tante altre ricchezze del favoloso Oriente, nella stanza del tesoro c’erano circa quaranta statue del Palladio disposte in nicchie. Identiche in tutto, tranne che nelle dimensioni.

«"Elena ha detto di prendere solo la più piccola" dissi a Diomede; presi il Palladio più piccolo e lo avvolsi in un mantello rosso tolto all’ultima guardia uccisa. Avevamo nelle mani la caduta di Ilio. Ora non dovevamo fare altro che sfuggire alla cattura.

«A quel punto Diomede decise di saccheggiare il tesoro di Priamo, subito, immediatamente, quella notte stessa. Il miraggio di tutto quel bottino era troppo grande, per l’avido bastardo senza cervello. Avrebbe barattato dieci anni di sangue e di fatica in cambio di poche libbre d’oro.

«Lo… dissuasi. Non descriverò la lite che seguì, quando posai a terra il Palladio avvolto nel mantello rosso e sguainai la spada per impedire al figlio di Tideo, re di Argo, di rovinare per avidità la nostra missione. La lite terminò in fretta, vinta dall’astuzia. E va bene, se insistete, ve la racconto: niente nobile combattimento, in quel caso. Niente gloriosa aristeia. Proposi di toglierci le puzzolenti tuniche prima di duellare; e mentre il grosso idiota si spogliava, gli tirai in testa un blocco di dieci libbre d’oro e lo lasciai tramortito.

«Così, alla fine, mi toccò fuggire dal palazzo di Priamo portando nell’incavo del braccio il pesante Palladio e in spalla l’ancora più pesante e nudo Diomede.

«Non potevo scavalcare le mura in quelle condizioni: ero pronto e disponibile e sul punto di lasciare Diomede nel pozzo nero della fogna dove il grande canale di scolo sfociava nel fiume che scorreva sotto le mura di Ilio; ma proprio allora Diomede riprese conoscenza e convenne di lasciare con me la città. Ce ne andammo in silenzio. Molto in silenzio. Diomede non mi rivolse più la parola, né quel giorno né la settimana seguente né dopo la caduta e il sacco di Ilio né mai più.

«E nemmeno io ho più parlato a Diomede, da quel giorno. «Dovrei aggiungere che poco dopo, quando portai il Palladio al campo degli argivi e lo nascosi bene, sicuro ormai che Ilio vivesse le sue ultime ore, cominciammo a lavorare al gigantesco cavallo di legno. Il cavallo aveva tre scopi: primo, era ovviamente un trucco per far entrare nella città me e un gruppo scelto di fidi guerrieri; secondo, era un sistema per fare in modo che i troiani stessi togliessero il grande architrave di pietra sopra le porte Scee per consentire il passaggio dell’offerta votiva, dal momento che secondo la profezia dovevano accadere due cose prima della caduta di Ilio, ossia la perdita del Palladio e la distruzione dell’architrave delle porte Scee; terzo, infine, il gigantesco cavallo era costruito come dono ad Atena per compensare la perdita del suo Palladio, dal momento che lei era anche chiamata Ippia, la dea dei cavalli, visto che proprio lei aveva domato e imbrigliato Pegaso per Bellerofonte e che traeva grande piacere dal cavalcare e allenare a ogni occasione i propri destrieri.

«Questo, amici miei, è il breve racconto del furto del Palladio e della caduta di Ilio. Mi auguro che vi sia piaciuto. Ci sono domande?»

Ada incrociò lo sguardo di Harman. "Questo era il breve racconto?" pensò. Vide che il suo amante accoglieva quel pensiero come se lei le avesse mandato in soffio un bacio.

«Sì, ho una domanda» disse Daeman.

Odisseo annuì.

«Perché a volte dici Troia e a volte Ilio?»

Odisseo scosse leggermente il capo, si alzò, prese dal sonie il fodero e la corta spada e si allontanò nella foresta.

24

ILIO, INDIANA E OLIMPO

Zeus è arrabbiato. Ho già visto Zeus arrabbiato, ma stavolta è molto, molto, molto arrabbiato.

Quando il padre degli dèi entra maestosamente nella semidistrutta sala di guarigione, osserva i danni, fissa il pallido corpo di Afrodite disteso in un nido di vermi verdi che si torcono sul pavimento bagnato e si gira nella mia direzione… sono sicuro che mi vede, che trapassa con lo sguardo il potere d’invisibilità dell’Elmo di Ade e mi vede! Ma anche se mi fissa per parecchi secondi e batte le palpebre su quei suoi occhi glaciali come se fosse sul punto di prendere una decisione, distoglie di nuovo lo sguardo e a me, Thomas Hockenberry, ex professore dell’Indiana University e, più di recente, ex occupante del letto di Elena di Troia, è permesso di continuare a vivere.

Ho brutti tagli al braccio destro e alla gamba sinistra, ma niente di rotto; ancora nascosto dall’Elmo di Ade alle decine di dèi che accorrono nella sala di guarigione, mi allontano dall’edificio e mi telequanto nell’unico posto cui riesco a pensare, a parte la camera da letto di Elena, dove posso stare nascosto e ricuperare: i dormitori degli scoliasti ai piedi di Olimpo.

Per vecchia abitudine vado nel mio stanzino e mi lascio cadere sul letto, ma tengo in funzione l’Elmo di Ade e dormicchio a spizzichi. È stata una lunga giornata infernale, notte e mattino compresi. L’Uomo Invisibile dorme.

Mi sveglio al rumore di grida e di tuoni al piano di sotto. Mi precipito nel corridoio. Passa di corsa lo scoliaste Blix (in realtà sono quasi travolto, perché a lui sono invisibile) e spiega col fiatone a un altro scoliaste, Campbelclass="underline" «La Musa è qui e sta ammazzando tutti!».

È vero. Mi rannicchio in un angolo della scalinata, mente la Musa (la nostra Musa, quelle che Afrodite ha chiamato Melete) abbatte i pochi scoliasti rimasti in vita nei dormitori in fiamme. La dea scaglia dalle mani saette di pura energia… cliché fritto e rifritto, ma molto efficace su semplice carne umana. Blix è condannato e non c’è niente che possa fare o escogitare per lui o per gli altri.

"Nightenhelser" penso. Il flemmatico scoliaste è stato l’unico mio vero amico negli ultimi anni. Ansando, corro nella sua stanza. Il marmo è sfregiato, il legno è in fiamme, il vetro della finestra è fuso, ma non c’è alcun cadavere carbonizzato come quelli sparsi nei corridoi e nelle salette. Nessuno di quei cadaveri mi è sembrato abbastanza grosso da appartenere al massiccio Nightenhelser. All’improvviso odo grida di morte dal secondo piano, poi silenzio, a parte il crescente ruggito delle fiamme. Guardo da una finestra e vedo la Musa passare volteggiando nel cocchio, cavalli olografici al gran galoppo. Sull’orlo del panico, tossendo per il fumo (se la Musa fosse ancora nei dormitori ora mi sentirebbe) mi costringo a visualizzare Ilio e la taverna dove ho visto per l’ultima volta Nightenhelser. Aziono il medaglione TQ e me la svigno.