Alzo le mani, palme in alto. «Afrodite voleva usarmi per uccidere Atena.»
Nightenhelser mi fissa. Riesce, a stento, a non restare a bocca aperta.
«So cosa pensi» dico. «"Perché proprio lui? Perché Hockenberry? Perché dargli il potere di telequantarsi e l’Elmo di Ade per rendersi invisibile?" E sono d’accordo: non ha senso.»
«Non pensavo questo» dice Nightenhelser. Un meteorite taglia il cielo stellato sopra di noi. Da qualche parte nella foresta al di là della collina una civetta emette un verso che non sembra proprio il suo tìpico chiurlare. «Mi chiedevo qual era il tuo nome proprio» soggiunge Nightenhelser.
Ora sono io, a fissarlo. «Perché?»
«Perché gli dèi ci hanno scoraggiato a usare il nome proprio e noi avevamo timore di fare amicizia, perché gli scoliasti non fanno che… sparire ed essere sostituiti dagli dèi» dice il robusto Nightenhelser, che pare un orso anche nel buio quasi totale. «Così voglio sapere come ti chiami.»
«Thomas» rispondo dopo un secondo. «Tom. E tu?»
«Keith» risponde l’uomo che conosco ormai da quasi un anno.
Si alza e guarda i boschi bui. «E ora, Tom?»
Insetti, rane e altre creature della notte fanno rumore nei boschi bui. A meno che non siano davvero indiani che si avvicinano, furtivi.
«Sai come… voglio dire, hai fatto vita da campeggiatore per un mucchio di tempo… cioè…» balbetto.
«Insomma, vuoi sapere se morirò, se mi lasci qui da solo?» dice Nightenhelser… Keith.
«Già.»
«Non lo so. Probabilmente. Ma sospetto di avere maggiori possibilità qui che non nella piana di Ilio. Almeno finché la Musa è sul sentiero di guerra…»
Sospetto che pure Keith sia fissato con gli indiani, ora.
«E poi ho tutti i piccoli giocattoli tecnologici e le attrezzature da scoliaste. Posso accendere il fuoco, usare la bardatura di levitazione per volare, se obbligato, morfizzarmi in un Apache, se necessario. Perciò ti puoi telequantare dove devi andare e fare ciò che devi fare» dice Nightenhelser. «Mi racconterai i particolari più tardi… se ci sarà un più tardi.»
Annuisco e mi alzo. Pare strano… sbagliato… lasciarlo qui da solo, ma non vedo altre possibilità.
«Sai trovare la strada?» chiede Nightenhelser. «Per tornare qui, voglio dire. A prendermi.»
«Credo di sì.»
«Credi? Credi solo?» Si passa le dita nei capelli arruffati. «Spero che tu non sia stato il direttore del tuo dipartimento, Hockenberry.»
Suppongo che l’era del nome proprio sia già finita.
Non c’è luogo dell’universo dove non preferirei trovarmi, anziché su Olimpo. Quando arrivo, gli abitanti di questa montagna sono radunati nella Grande Sala degli Dèi. Mi accerto di avere calzato bene l’Elmo di Ade e di non gettare ombra, poi entro di soppiatto nell’enorme edificio stile Partenone.
Nei nove e passa anni da scoliaste non ho mai visto tanti dèi nello stesso luogo. Su un lato della grande piscina in ologramma siede Zeus, più imponente che mai nell’alto trono d’oro. Come ho già detto, gli dèi sono in genere alti da due metri e mezzo a tre, tranne quando assumono forma mortale, e Zeus solitamente torreggia su di loro di almeno un metro, un divino adulto per quei cosmici bambini. Ma oggi Zeus è alto sette metri e mezzo, forse più, e un suo muscoloso avambraccio è più lungo del mio tronco. Mi chiedo fuggevolmente come ciò si accordi con la conservazione della massa e dell’energia che quell’altro scoliaste cercò d’insegnarmi anni fa, ma al momento non è importante. Mi tengo più indietro, contro la parete, lontano dagli dèi in movimento, e non faccio rumore, mossa, starnuto che mi tradirebbero ai loro raffinati sensi da supereroi: questo sì che è importante.
Pensavo di conoscere per nome tutti gli dèi e le dee, ma qui ce ne sono decine e decine che non riconosco. Quelli a me noti, gli dèi e le dee che sono stati più coinvolti nella guerra di Troia, risaltano nella folla come stelle del cinema a una riunione di politici di secondo piano; ma anche il minore di questi dèi è più alto, più bello e più perfetto di qualsiasi star umana ricordi dall’altra mia vita. Più vicino a Zeus, di fronte a lui al di là dell’ologramma della piscina (che ora divide la sala come un lungo fossato) vedo Pallade Atena, il dio della guerra Ares (evidentemente uscito dalla vasca di guarigione, rimasta intatta quando ho distrutto quella di Afrodite) e i fratelli più giovani di Zeus: il dio del mare Poseidone (che di rado viene su Olimpo) e Ade, sovrano dei morti. Il figlio di Zeus, Ermes, è in piedi vicino alla piscina e il messaggero degli dèi e uccisore di giganti è magro e bello come lo raffigurano le statue. Un altro figlio di Zeus, Dioniso, il dio dell’estatico sollievo, parla a Era e, contrariamente alla sua classica immagine, non ha in mano una coppa di vino. Per un dio dell’estatico sollievo, Dioniso pare pallido, debole e accigliato, come un uomo alla terza settimana appena di un programma di dodici. Più in là c’è Nereo, il vero dio del mare, e sembra più vecchio del tempo. Ha dita palmate alle mani e ai piedi e branchie visibili sotto le ascelle.
I Fati e le Furie sono presenti in forze, si mescolano per caso o di proposito fra gli dèi e le dee. Costoro sono dèi, più o meno, tuttavia a volte hanno potere regolatore sugli altri dèi. D’aspetto non sono tanto umani come gli dèi soliti e di loro, lo confesso, non so quasi nulla, tranne che non vivono su Olimpo, ma lontano, in uno dei tre vulcani verso sudest, vicino alla residenza delle Muse.
La mia Musa, Melete, è presente, insieme con le sorelle, Mneme e Aoide. Anche le Muse più "moderne" sono tra la folla: Calliope, Polimnia, Urania, Erato, Clio, Euterpe, Melpomene, Tersicore e Talia. Appena al di là delle Muse ci sono le dee di serie A. Afrodite non è fra loro, è la prima cosa che noto. Se ci fosse, sarei visibile a lei come quelle divinità sono visibili a me. Ma sua madre, Dione, è presente, parla con Era ed Ermes e pare davvero molto seria. Accanto a quel gruppo ci sono Demetra, dea delle messi, e sua figlia Persefone, moglie di Ade. Dietro di loro scorgo Pasitea, una delle Cariti. Più in là, come si conviene alla loro condizione inferiore, ci sono le Nereidi, nude fino alla cintola, belle e dall’aria infida.
La meta-dea chiamata Notte sta da sola. Ha veste e velo di un viola così scuro da sembrare nero e perfino gli altri dèi si tengono lontano da lei. Non so nulla di Notte, a parte voci secondo le quali perfino Zeus ha paura di lei, e non l’ho mai vista prima su Olimpo.
Come un fanatico di film che guardi allocchito tra la folla attorno alla passerella su cui sfilano gli attori candidati agli Oscar, cerco di distinguere gli dèi importanti da quelli minori. Là, per esempio, c’è Ebe, in piedi accanto ai maschi (la dea della gioventù, figlia di Zeus e di Era, è solo una serva degli dèi) e laggiù Efesto, il grande fabbro, dai capelli rossi come fiamme, parla alla moglie Charis, che è solo una delle Cariti. La gerarchia sociale fra gli dèi e le dee, noto non per la prima volta, è complicata.
All’improvviso la dea Iride, messaggera di Zeus, avanza in volo… sì, in volo… e batte le mani. «Il Padre parlerà» annuncia, con voce chiara e tersa come un assolo di flauto.
Immediatamente le conversazioni sottovoce di decine di capannelli cessano e nella grande sala piena d’echi scende il silenzio.
Zeus si alza. Il trono d’oro e i gradini d’oro mandano un bagliore che lo inonda di luce divina. «Ascoltatemi, tutti voi dèi e anche dee» attacca Zeus, con voce dolce, ma così forte che la sento vibrare contro le alte pareti di marmo. «Oggi un dio o una dea ha tentato di far male ad Afrodite, che era in cura nella nostra sala di guarigione; Afrodite vivrà, c’è mancato poco, ma occorreranno molti giorni perché guarisca. Un dio o una dea ha tentato oggi di uccidere una immortale, di uccidere una di noi che non è destinata a morire!»
I brontolii e le esclamazioni sconvolte cominciano come un brusio e aumentano fino a diventare un rombo nella grande sala.