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«SILENZIO!» tuona Zeus e stavolta la sua voce è così forte che mi sbatte a terra e mi fa scivolare sul pavimento di marmo come erba mobile in un tornado. Per fortuna non vado a sbattere contro nessuno e il rumore della scivolata è soffocato dagli echi del grido di Zeus.

«Ascoltatemi ora, o dèi e dee» prosegue Zeus, con voce amplificata come dal più perfetto sistema d’altoparlanti. «Che una bella dea o un dio non tentino di sfidare il mio rigido decreto. Vi sottometterete alla mia volontà… SUBITO!»

Stavolta sono pronto per resistere alla forza d’uragano della sua voce e mi tengo aggrappato a una colonna finché non passa.

«Ascoltatemi» dice Zeus, quasi bisbigliando ora, con una sensazione di potere resa ancora più terribile dal tono dolce. «Ogni dio che violi il mio decreto e aiuti i troiani o gli achei, come ho visto fare questo mese, al ritorno su Olimpo sarà frustato dal mio fulmine e sferzato dal mio tuono, cadrà in disgrazia per l’eternità e sarà bandito da Olimpo. Sfidatemi e scoprirete cosa significa essere gettati nelle tenebre del Tartaro distante mezzo universo in spazio e tempo, nel più profondo abisso che si spalanca sotto noi quantici.»

Mentre parla, la lunga piscina bolle e gorgoglia, diventa nera come pece e poi una cosa del tutto diversa; il pozzo rettangolare (che pare una decina di piscine olimpiche poste una di seguito all’altra, ora ribollenti e piene di gorgogliante olio nero) a un tratto emette un rombo e diventa un buco che si apre in chissà quale altro luogo, scuro e infuocato e profondissimo. Rotolano fuori ondate di puzzo sulfureo; dèi e dee vicino al bordo arretrano.

«Ecco il Tartaro» tuona Zeus. «L’infimo abisso della casa di Ade, un luogo nelle profondità dell’inferno quanto la casa di Ade è nelle profondità della terra stessa. Ricordate, dèi e dee più anziani fra noi, quando mi avete seguito nella decennale guerra contro i Titani che regnavano prima di noi? Ricordate che gettai Crono e Rea, i miei stessi genitori, al di là di quelle porte di ferro e delle soglie di bronzo? Sì, e Giapeto, anche, malgrado il suo potere divino?»

La sala è silenziosa, a parte i rombi soffocati e gli ansiti e le grida che salgono dal Tartaro spalancato. Non ho il minimo dubbio che quel buco porti dritto all’inferno: non è un ologramma e si apre a meno di dieci metri da dove sono rincantucciato.

«SE HO GETTATO I MIEI GENITORI IN QUESTO ABISSO PER L’ETERNITÀ» tuona Zeus «AVETE DUBBI CHE CI METTERÒ UN SECONDO A SCAGLIARE LÀ DENTRO LA VOSTRA ANIMA URLANTE?»

Dèi e dee non rispondono, però arretrano di parecchi passi da quel fetido vuoto.

Zeus ha un sorriso terribile. «Su, mettetemi alla prova, immortali, così tutti potranno imparare.»

Un enorme cavo d’oro cade dal soffitto della sala, di traverso sul buco dell’inferno. Dèi e dee si affrettano a togliersi di mezzo. Il cavo colpisce sonoramente il marmo. È più spesso di una gomena di nave e pare ottenuto intrecciando migliaia di fili d’oro fino spessi un pollice. Peserà di sicuro varie tonnellate.

Zeus scende i gradini d’oro e alza il cavo, tenendolo con facilità nelle mani enormi. «Prendete l’altro capo» dice in tono quasi allegro.

Dèi e dee si scambiano occhiate e non si muovono.

«PRENDETELO!»

Centinaia d’immortali e di loro servi immortali si precipitano a ubbidire, si azzuffano per afferrare il lungo cavo d’oro come bambini a un piacevole tiro alla fune. Nel giro di un minuto c’è Zeus, da solo da un lato del Tartaro, a reggere con noncuranza il cavo e l’innumerevole folla di dèi e dee dal lato opposto, mani serrate sulla gomena d’oro.

«Trascinatemi dentro» dice Zeus. «Trascinatemi giù dai cieli alla terra e all’Ade e ancora più in basso, nei mefitici abissi del Tartaro. Trascinatemi giù, dico.»

Non un dio muove muscolo.

«TRASCINATEMI GIÙ, VI ORDINO!» tuona Zeus. Afferra il cavo d’oro e comincia a tirare. Sandali di dèi scivolano e cigolano e strusciano sul marmo. Parecchie centinaia di dèi e dee, tutti in fila, sono tirati più vicino all’abisso; alcuni inciampano, alcuni cadono sulle ginocchia.

«TIRATE, MALEDETTI!» tuona Zeus. «TIRATE O SARETE TRASCINATI NEL PUZZOLENTE TARTARO FINCHÉ IL TEMPO STESSO NON CADRÀ PUTREFATTO DALLE OSSA DELL’UNIVERSO!»

Zeus dà uno strattone e venti metri di cavo d’oro si ammucchiano in spire dietro di lui. Sull’altro lato, la fila di dèi e dee, Cariti e Furie, Nereidi e altre ninfe e chi più ne ha più ne metta (tutti tirano, tranne la Notte dalla veste viola) striscia e stride più vicino all’abisso. Atena, la prima, a soli dieci metri dal bordo, grida: «Tirate, dèi! Tirate dentro il vecchio bastardo!».

Ares e Apollo, Ermes e Poseidone e il resto degli dèi più potenti fanno forza. Smettono di scivolare. Il cavo si tende al massimo, si sfilaccia e scricchiola per la tensione. Le dee gridano e tirano all’unisono; Era, moglie di Zeus, tira anche più forte delle altre. Il cavo d’oro si tende e geme.

Zeus scoppia a ridere. Li tiene tutti in scacco, con una mano sola. Ora afferra il cavo anche con l’altra mano e tira di nuovo.

Gli dèi strillano come bambini sulle montagne russe. Atena e quelli accanto a lei scivolano sul marmo come su ghiaccio, sempre più vicino al ribollente abisso del Tartaro, mentre decine d’immortali minori si arrendono e lasciano la presa. Ma Atena non molla. È tirata senza sosta verso il bordo della fumante botola per l’inferno. L’intera fila di immortali che si sforzano, sudano, imprecano è trascinata verso l’abisso.

Con una risata Zeus lascia andare il cavo. Decine e decine di dèi e di dee volano all’indietro e finiscono scompostamente sull’immortale fondoschiena.

«Voi, dèi e dee, bambini, fratelli, sorelle, figli, figlie, cugini e servi… non potete trascinarmi sotto» dice Zeus. Torna al trono e si siede. «Neanche a costo di slogarvi le braccia, di sfiancarvi a morte, potreste smuovermi, se non volessi farlo io stesso. Sono Zeus, il più grande, il più potente dei re.» Alza un enorme dito. «Ma… se decido di trascinarvi sul serio, vi isso da questo Olimpo, vi spenzolo nel nero spazio sopra il Tartaro, vi lego a terra e mare insieme, aggancio il capo al corno di questa montagna detta Olimpo e vi lascio lì sospesi nelle tenebre finché il sole non diventi freddo.»

Se non avessi appena visto la scena, avrei pensato che il vecchio bastardo bluffasse. Ora so come stanno le cose.

Atena si rialza, a non più di un metro dal bordo del Tartaro, e dice: «Padre nostro, figlio di Crono, che sei nel più alto trono dei cieli, conosciamo il tuo potere. Chi può resisterti? Non noi…».

Tutti gli immortali sembrano trattenere il fiato. L’umore di Atena è leggendario, come la sua frequente mancanza di diplomazia: se ora dice la cosa sbagliata…

«Tuttavia» continua la glaucopide figlia di Zeus «ci muoviamo a pietà per quei mortali, io per i miei condannati lancieri argivi, che recitano la loro piccola parte sul loro piccolo palcoscenico, muoiono di orribile morte, annegano nel proprio sangue alla fine della loro piccola vita.»

Muove altri due passi, tanto che la punta dei sandali sporge sopra il nero abisso. Da qualche parte, migliaia di metri sotto di lei, nelle tenebre lacerate da fulmini del Tartaro, una grossa creatura mugghia di dolore e di paura. «Sì, Zeus» continua Atena «ci terremo alla larga dalla guerra, come tu ordini. Ma concedici almeno il permesso di consigliare ai nostri mortali preferiti le tattiche che potrebbero salvarli, in modo che non cadano sotto il fulmine della tua immortale collera.»

Zeus guarda a lungo la figlia. Non riesco a interpretare la sua espressione: è infuriato? divertito? spazientito?

«Cara tritogeneia… figlia terzogenita» dice Zeus «il tuo coraggio mi ha sempre fatto venire il mal di testa. Ma non perderti d’animo, perché la lezione che vi ho dato oggi non proviene affatto dalla collera, ma vuole solo mostrare a tutti i presenti quali risultati avrà la loro disobbedienza.»