Выбрать главу

«C’è mancato poco» borbottò Mahnmut. «E probabilmente fra poco non ci mancherà più niente.»

«Descrivimi la giornata» disse Orphu. «La nebbia c’è ancora?»

I giorni e il paesaggio e le notti erano bellissimi. Mahnmut derivava la conoscenza dei pianeti con atmosfera respirabile esclusivamente dalla banca dati riguardante la Terra e perciò il Marte terraformato era una variazione interessante.

Il colore del cielo variava da un luminoso celeste a mezzodì a un rosa rossastro al tramonto, tonalità che a volte virava a un giallo oro che infondeva fulgore in ogni cosa. Il Sole stesso pareva decisamente più piccolo di quello visto dalla Terra, come testimoniavano vecchie registrazioni video, ma era immensamente più grande, più luminoso e più caldo di quello conosciuto dai moravec galileiani negli ultimi millecinquecento anni terrestri. La brezza era dolce e odorava di salsedine e a volte, in modo sconvolgente, di vegetazione.

«Ti chiedi mai perché ci abbiano dato quel senso?» disse Orphu, quando Mahnmut gli descrisse il profumo di vegetazione, mentre dal mare Tethys entravano nell’ampio estuario della Valles Marineris.

«Quale?»

«L’olfatto.»

Mahnmut rifletté sulla domanda. Aveva sempre dato per scontato il senso dell’olfatto, anche se era inutile sott’acqua o sulla superficie di Europa e in pratica anche nella nicchia ambientale del Dark Lady… in altre parole, dovunque lui si fosse trovato. «Potrei fiutare fumi tossici nel sommergibile o nei cubicoli pressurizzati di Conamara Chaos Central» disse alla fine, sapendo però che non era una risposta soddisfacente. Per quella sorta di pericoli nei moravec erano inseriti segnalatori di maggiore efficacia.

Orphu ridacchiò piano. «Avrei potuto fiutare lo zolfo, quando ero sulla superficie di Io, ma chi ne avrebbe avuto voglia?»

«Puoi sentire gli odori?» disse Mahnmut. «Non ha molto senso, per un moravec da vuoto spaziale.»

«Già. E neanche il fatto che trascorro, trascorrevo cioè, la maggior parte del tempo a guardare cose nello spettro umano di luce visibile; però a ogni occasione guardavo.»

Mahnmut rifletté anche su questo. Era vero: lui faceva la stessa cosa, anche se poteva facilmente vedere nelle estremità dello spettro, infrarosso e ultravioletto. La vista di Orphu, Mahnmut lo sapeva, comprendeva visualizzazione di frequenze radio e di linee di campo magnetico, tutt’e due non comuni negli umani vecchio stile, che però erano molto più sensate per un moravec che lavorasse nei campi di radiazioni dure dello spazio galileiano. Perché allora il suo amico sceglieva più frequentemente le limitate lunghezze d’onda "visibili" per le creature umane?

«Credo che sia perché i nostri progettisti e tutte le successive generazioni di moravec avevano il segreto desiderio di essere umani» disse Orphu, rispondendo alla domanda inespressa di Mahnmut; l’accompagnò con un rombo ironico o divertito. «L’effetto Pinocchio, per così dire.»

Su questo Mahnmut non era d’accordo, ma si sentiva troppo depresso per discuterne.

«Che odori senti adesso?» chiese Orphu.

«Vegetazione putrefatta» disse Mahnmut, mentre la feluca prendeva il canale più meridionale del largo estuario. «Puzza come il Tamigi di Shakespeare nelle ore di bassa marea.»

Nella prima settimana di risalita del fiume, per non stare inoperoso e impazzire di noia, Mahnmut smontò ed esaminò come meglio poteva gli altri tre oggetti ricuperati dalla stiva merci… considerando Orphu il quarto.

Il manufatto più piccolo, un liscio ovoide più grosso del compatto tronco di Mahnmut, era il Congegno, l’elemento singolo più importante della missione del compianto Koros III. Tutto ciò che Mahnmut e Orphu sapevano del Congegno era che il moravec di Ganimede avrebbe dovuto portarlo su Olympus Mons e, se si fossero verificate certe circostanze di natura a loro imprecisata, metterlo in funzione.

Mahnmut sondò col sonar il Congegno e rimosse una minuscola parte dell’involucro di superlega riflettente. A che cosa servisse, rimaneva oscuro. La macchina, se macchina era, era macromolecolare: in pratica una singola molecola di nanotecnologia elevata al quadrato, con un durevole nucleo centrale di tremenda energia tenuta a freno solo dai campi interni della macromolecola. L’unico congegno vero e proprio che Mahnmut riuscì a scoprire era un detonatore innescato a corrente. Trentadue volt applicati nel punto giusto dell’involucro avrebbero… fatto qualcosa… alla parte interna della macromolecola.

«Potrebbe essere una bomba» disse Mahnmut, rimettendo accuratamente a posto il millimetro quadrato d’involucro metallico.

«E che bomba!» borbottò Orphu. «Se la macromolecola è un guscio d’uovo, qui abbiamo di che fare una frittata. Il tuorlo saremo noi.»

Fingendo di non avere sentito la battuta, per non rompere l’amicizia e non cedere all’impulso di gettare Orphu fuoribordo, Mahnmut guardò lo scorrere delle pareti del canyon (navigavano ancora a meno di tre chilometri dagli alti dirupi meridionali che delimitavano quel giorno il largo mare interno) e immaginò la scomparsa di tutte quelle bellissime rocce rosse, striate, a terrazze. Pensò alle mangrovie periscopiche che crescevano nelle basse paludi marziane dell’estuario, alla ginestra spinosa dalle forme geometriche naturali visibile nelle pareti più alte dei dirupi della valle, perfino al fragile cielo azzurro con increspature d’alti cirri sopra la roccia… e cercò d’immaginare la distruzione di tutte quelle meraviglie in una sola esplosione quantica tanto grande da fare a pezzi un pianeta. Non gli parve giusto. «Riesci a pensare cos’altro potrebbe essere, anziché una bomba?» chiese a Orphu.

«Così su due piedi, no» rispose il moravec di Io. «Ma un congegno che racchiude tutta quell’energia quantica implosiva rappresenta una tecnologia molto al di là delle mie conoscenze. Ti suggerirei di trattare con gentilezza il Congegno… metterci sotto un paio di cuscini, per esempio; ma visto che ha resistito all’attacco della gente del cocchio e all’ingresso nell’atmosfera che ha fregato me e ucciso il tuo sommergibile, di sicuro non può essere molto delicato. Dagli un calcio in culo e andiamo avanti. Qual è il secondo oggetto che hai preso dalla stiva?»

L’oggetto successivo era solo un po’ più largo del Congegno, ma molto più comprensibile. «È una sorta di trasmettitore iperveloce» disse Mahnmut. «È ripiegato su se stesso, ma se lo accendo, si srotola sul proprio treppiede, punta al cielo un largo piatto e invia una bella raffica di… di qualcosa. Energia cifrata in raggio compatto o k-maser o forse perfino gravità modulata.»

«Che cosa se ne sarebbe fatto Koros di questo affare?» chiese Orphu. «I satelliti di trasmissione sono ancora in orbita e la nave spaziale avrebbe potuto ritrasmettere nello spazio galileiano ogni sorta di raggio o di segnale radio. Diavolo, perfino il tuo sommergibile avrebbe potuto contattare casa.»

«Forse non era prevista una trasmissione nello spazio gioviano» ipotizzò Mahnmut.

«Dove, allora?»

Mahnmut non avanzò alcuna ipotesi.

«Koros come intendeva mettere in codice i messaggi?» chiese Orphu.

«Ci sono porte per connettori a spina virtuali» disse Mahnmut, dopo avere ispezionato con cura il compatto macchinario rivestito di nanocarbonio. «Potremmo scaricare tutto ciò che abbiamo visto e appreso, metterlo in codice e trasmetterlo. A meno che non occorra un codice d’attivazione o roba del genere. Mi inserisco e controllo?»

«No» disse Orphu. «Per il momento.»

«Allora lo chiudo.»

«Quel trasmettitore cosa usa come fonte d’energia per una emissione iperveloce?» chiese Orphu, prima che Mahnmut chiudesse l’apparecchio.

Mahnmut non era esperto in quella tecnologia, ma descrisse lo schema del contenitore magnetico e del campo di forza.

«Ohi, ohi» disse Orphu. «È la felschenmass di Chevkov. Antimateria artificiale del tipo che il Consorzio ha usato come propellente della prima sonda interstellare. Qui c’è energia sufficiente a tenerci vivi e pimpanti per parecchi secoli terrestri, se solo avessimo il modo di attingervi.»