«Urtzweil, il mio vecchio compagno, leggeva e rileggeva la Bibbia nella versione di re Giacomo» disse Mahnmut. «L’ha studiata per decenni.»
«Sì» disse Orphu. «E io e il mio Proust.» Canticchiò a bocca chiusa alcune battute di Me and My Shadow. «Sai cos’hanno in comune tutte queste opere intorno a cui gravitiamo?»
Mahnmut rifletté un momento. «No» rispose infine.
«Sono inesauribili.»
«Inesauribili?»
«Impossibili da consumare. Se fossimo umani, quei particolari drammi e romanzi e poesie sarebbero come case che presentano sempre nuove stanze, scale nascoste, soffitte mai visitate… quella sorta di cose.»
«Ah-ah» fece Mahnmut, poco convinto dalla metafora.
«Oggi non sembri felice, con il tuo Bardo» disse Orphu.
«Credo che la sua inesauribilità abbia esaurito me» ammise Mahnmut.
«Cosa succede sul ponte? C’è gran movimento?»
Mahnmut girò le spalle al tramonto. Tre quarti dell’equipaggio della nave sgambettava in silenzio, legava vele, si arrampicava sulle sartie, calava l’ancora e la fissava. Restavano tre o quattro minuti di luce utile, poi i piccoli omini verdi sarebbero entrati in ibernazione: si sarebbero distesi, rannicchiati, chiusi per la notte.
«Hai sentito le vibrazioni del ponte?» chiese Mahnmut al suo amico. Olfatto a parte, era l’ultimo senso che restava a Orphu.
«No, sapevo che il giorno era alla fine. Perché non li aiuti?»
«Prego?»
«Perché non li aiuti?» ripeté Orphu. «Sei un uomo di mare sano e robusto. Quanto meno, sai distinguere un gherlino da un merlino. Da’ loro una mano… o il più prossimo equivalente moravec.»
«Darei solo fastidio» disse Mahnmut. Guardò il rapido lavoro e la perfetta precisione dei piccoli omini verdi. Correvano sul sartiame e sugli alberi come le scimmie che aveva visto nei video. «E poi noi non siamo telepatici» soggiunse Mahnmut «ma sono abbastanza sicuro che loro lo siano. Non hanno bisogno del mio aiuto.»
«Sciocchezze» disse Orphu. «Renditi utile. Io torno a leggere di Monsieur Swann e della sua amica infedele.»
Mahnmut esitò un momento, poi mise nello zaino l’insostituibile libro di sonetti, trotterellò a mezza nave e collaborò a legare la vela latina appena ammainata. Sulle prime i POV si bloccarono nel lavoro sincronizzato e si limitarono a fissare il moravec (occhi come bottoni d’antracite immobili nel viso verde privo di lineamenti), poi però gli fecero posto e Mahnmut, lanciando occhiate al sole al tramonto e aspirando la fresca aria marziana, si mise di lena al lavoro.
Nelle settimane seguenti Mahnmut cambiò umore, passò dalla depressione alla soddisfazione e a qualcosa di simile all’equivalente moravec della gioia. Lavorò ogni giorno insieme con i POV, continuando a conversare con Orphu anche mentre rattoppava vele, impiombava cordame, ramazzava i ponti, tirava su l’ancora e faceva il turno alla barra. La feluca progrediva di quaranta chilometri al giorno, che parevano pochissimi finché non ci si rendeva conto di risalire il fiume, procedendo perciò contro corrente e con venti irregolari, a remi per la maggior parte del tempo e fermandosi completamente di notte. Poiché la Valles Marineris era lunga circa quattromila chilometri (quasi la larghezza di una nazione dell’Età Perduta, gli Stati Uniti, continuava a ricordargli Orphu) Mahnmut era rassegnato a compiere la traversata in circa cento giorni marziani. Al di là del bordo occidentale del mare interno (Mahnmut continuava a ricordarlo a se stesso e Orphu continuava a ricordarglielo, quando lui se ne dimenticava) c’era l’altopiano Tharsis, con i suoi milleottocento e passa chilometri.
Mahnmut non aveva fretta. I piaceri di navigare sulla feluca (l’imbarcazione non aveva nome, per quanto lui ne sapeva… e non intendeva uccidere un piccolo omino verde per chiederglielo) erano semplici e reali, il panorama era stupefacente, di giorno il sole era caldo, di notte l’aria era deliziosamente fresca e la disperata urgenza della loro missione a poco a poco svaniva nel rassicurante ciclo della routine.
Verso la fine della sesta settimana di navigazione, mentre lavorava all’albero di trinchetto della feluca, Mahnmut vide comparire un cocchio, dritto davanti alla nave, a meno di mezzo chilometro, in volo a bassa quota (solo una trentina di metri sopra le vele) e non ebbe il tempo di correre al coperto. Era da solo all’intersezione dei due segmenti dell’albero (una feluca ha vele triangolari e due alberi a segmenti, con la parte superiore arditamente inclinata all’indietro) e non c’erano piccoli omini verdi nel sartiame. Mahnmut era completamente esposto alla vista di chiunque o qualsiasi cosa pilotasse il cocchio.
Il velivolo sorvolò la feluca, viaggiando a varie centinaia di chilometri all’ora, a quota molto bassa, e Mahnmut vide che i due cavalli che tiravano il cocchio erano ologrammi. L’unico occupante, un uomo alto, in tunica color bronzo, reggeva le redini virtuali. Aveva pelle dorata, era maestosamente bello e lunghi capelli biondi gli ondeggiavano alle spalle. Non si degnò di guardare in basso.
Mahnmut ne approfittò per esaminare veicolo e occupante, utilizzando ogni filtro visivo, frequenza e lunghezza d’onda a disposizione; trasmise via radio i dati a Orphu, nel caso che il dio sul cocchio lo avesse visto e avesse deciso di sbatterlo giù dall’albero, con un semplice gesto della mano. Cavalli, redini e ruote erano ologrammi, ma il cocchio era reale, fatto di titanio e oro. Mahnmut non riuscì a rilevare razzi, impulsi ionici o scie jet, ma il cocchio emetteva energia su tutto lo spettro elettromagnetico, sufficiente a disturbare il resoconto radio di Mahnmut a Orphu, se non fosse avvenuto su fascio compatto. Cosa più infausta, la macchina volante aveva in scia festoni quadridimensionali di flusso quantico. Parte del profilo energetico della macchina era racchiuso in un campo di forza che Mahnmut vedeva chiaramente nell’infrarosso: uno scudo d’energia sulla parte anteriore del velivolo lanciato a grande velocità, a protezione dal vento del suo stesso passaggio, e una più larga bolla difensiva tutt’intorno. Mahnmut era lieto di non avere tirato un sasso o sparato al carro… se avesse avuto un sasso o un’arma a energia, che in realtà non aveva. Quel campo di forza, calcolò Orphu, avrebbe protetto il pilota da qualsiasi cosa tranne una piccola esplosione nucleare.
«Cosa lo fa volare?» chiese Orphu, mentre il cocchio rimpiccioliva a est. «Marte non ha campo magnetico tanto forte da muovere una macchina volante.»
«Credo sia il flusso quantico» disse Mahnmut, sempre appollaiato sull’albero. Era un giorno ventoso e la feluca dondolava e bordeggiava e le onde la colpivano da sud.
Orphu emise un verso poco educato. «La distorsione quantica diretta può lacerare tempo e spazio, anche popoli e pianeti, ma non capisco come possa far volare un cocchio.»
Mahnmut si strinse nelle spalle, anche se il suo amico non poteva vederlo. «Be’, non ha eliche» replicò. «Ti scaricherò i dati, ma a me è parso che quel goffo affare facesse surf su un ricciolo di distorsione quantica.»
«Peculiare» disse Orphu. «Comunque, anche mille macchine volanti come quella non potrebbero spiegare il locus di distorsione quantica rilevato da Ri Po su Olympus Mons.»
«No» convenne Mahnmut. «Almeno quel… dio… non ci ha visti.»
Seguì una pausa e Mahnmut ascoltò il rumore della prua contro le onde e lo sbatacchiare del cordame delle vele latine che si gonfiavano d’aria. C’era un gentile mormorio di vento tra le sartie dove Mahnmut si trovava e il moravec ne apprezzava il suono. Apprezzava anche il men che gentile rollio e beccheggio della nave che bordeggiava, anche se lo compensava facilmente reggendosi con una mano all’albero e con l’altra a una gomena tesa. Erano ben dentro la più. ampia sezione della valle tettonica allagata, adesso, in una zona detta Melas Chasma — con il vasto e lucente mare del Candor Chasma che si apriva a nord e il fondo marino a più di ottomila chilometri sotto di loro — ma all’orizzonte, verso sud, si vedevano scogliere di enormi isole, alcune lunghe molti chilometri e larghe trenta o quaranta.