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«Forse ti ha visto e si è limitato a chiedere rinforzi per radio a Olympus Mons» suggerì Orphu.

Mahnmut trasmise l’equivalente di un sospiro in disturbi radio. «Sei sempre ottimista» disse.

«Realista» lo corresse Orphu. Ma divenne serio nella trasmissione successiva. «Sai, Mahnmut, presto dovrai parlare ai piccoli omini verdi. Abbiamo troppe domande che necessitano di risposta.»

«Lo so» disse Mahnmut. Al pensiero, sentì un vago senso di malessere che nemmeno il rollio della feluca gli aveva provocato.

«Forse sarà meglio anticipare l’uso del pallone» suggerì di nuovo Orphu. Mahnmut aveva trascorso diversi giorni a mettere insieme alla meno peggio una navicella più grande, utilizzando il bambù-3 di quella originaria e alcune assi tolte da uno dei meno indispensabili parapetti di murata della feluca. I POV non avevano avuto niente da eccepire.

«Penso che non sia ancora il momento di lanciare il pallone» disse Mahnmut. «Non sappiamo neppure in quale direzione soffino in prevalenza i venti in questo mese e i propulsori a impulso non ci daranno molta manovrabilità, una volta che il pallone sarà salito nelle correnti marziane. Meglio avvicinarsi il più possibile a Olympus Mons, prima di rischiare il pallone.»

«Sono d’accordo» disse Orphu, dopo qualche istante di silenzio. «Ma è ora di parlare di nuovo ai POV. Ho una teoria secondo la quale non usano la telepatia, né quando parlano con te né quando trasmettono informazioni fra loro.»

«No?» disse Mahnmut, guardando giù in direzione di una decina di piccoli omini verdi che salivano dai banchi dei remi e cominciavano a lavorare con efficienza sul cordame di prua. «Non riesco a immaginare cos’altro potrebbe essere. Di sicuro non hanno bocca né orecchie e non si scambiano dati su nessun tipo di frequenza.»

«Credo che le informazioni siano nelle particelle nel loro corpo» disse Orphu. «Nanopacchetti di informazioni codificate. Per questo vogliono che tu usi la mano per afferrare il loro organo interno, una sorta di centrale telegrafica: la tua mano, a differenza dei tuoi generici manipolatori, è organica. Macchine molecolari viventi possono passare nel tuo flusso sanguigno per via osmotica e raggiungere il tuo cervello organico, dove gli stessi nanobyte collaborano a tradurre.»

«Ma come comunicano fra loro?» chiese Mahnmut, dubbioso. Preferiva l’ipotesi della telepatia.

«Nello stesso modo» rispose Orphu. «Col tatto. La loro pelle è semipermeabile e probabilmente il passaggio dei dati avviene a ogni contatto anche casuale.»

«Non so» disse Mahnmut. «Ricordi che, quando è giunta la feluca, il suo equipaggio pareva sapere già tutto di noi? Compresa la nostra destinazione? Mi è parso che la nostra presenza fosse stata diffusa telepaticamente per tutta la rete psichica dei piccoli omini verdi.»

«Sì, ho avuto anch’io la stessa impressione» disse Orphu. «Ma, a parte il fatto che la scienza umana o moravec non ha mai stabilito anche solo un contesto teorico per la telepatia, il rasoio di Occam imporrebbe che l’equipaggio della feluca abbia saputo di noi tramite semplice contatto fisico con i POV nel punto di approdo o con altri che erano già stati lì.»

«Nanopacchetti di dati nel flusso sanguigno, eh?» disse Mahnmut, lasciando trasparire lo scetticismo. «Ma se faccio altre domande, uno di loro deve comunque morire.»

«Purtroppo» disse Orphu, senza ripetere l’argomentazione che i singoli POV non avevano probabilmente maggiore personalità autonoma di quanta non ne avessero le cellule della pelle umana.

Parecchi piccoli omini verdi si arrampicavano sul trinchetto vicino a Mahnmut, legando cavi e ammainando la vela latina, con l’abilità di acrobati. Nel passare su o giù, muovevano amichevolmente la testa in un cenno di saluto.

«Aspetterò ancora un poco, a fare domande» disse Mahnmut. «In questo momento all’orizzonte meridionale c’è un’enorme nube rossa e marrone e ci sarà bisogno di tutti per fare fronte alla tempesta in arrivo.»

27

PIANA DI ILIO

I troiani massacrano i greci. I miei studenti, nell’altra mia vita, avrebbero detto "decimano" i greci, usando il termine per indicare la totale distruzione tanto amato, negli anni tra la fine del ventesimo secolo e l’inizio del ventunesimo, da giornalisti pigri e da presentatori televisivi illetterati; ma il verbo "decimare" ha un significato ben preciso (uccidere una persona su dieci, come facevano per rappresaglia gli antichi romani nei villaggi di ribelli) e indica un numero di vittime pari a un semplice dieci per cento, perciò è giusto dire che i troiani non decimano i greci, fanno ben di peggio.

I troiani li massacrano.

Dopo l’ultimatum agli altri dèi, Zeus si telequanta sulla terra, nel cocchio d’oro, e scende sulle pendici del monte Ida, la più alta montagna che permette la migliore vista divina di Ilio; si accomoda sul trono di dimensioni superiori al normale, posto sulla vetta, e guarda in basso le alte mura della città e le centinaia di navi da guerra achee tirate a riva o alla fonda più al largo. Gli altri dèi sono troppo intimiditi per scendere a giocare, dopo la sua dimostrazione di potere; così il padre degli dèi estrae l’aurea bilancia e pondera il fato di morte per gli uomini in basso: un peso ha la sagoma di cavaliere troiano, l’altro quella di lanciere argivo in corazza di bronzo.

Zeus solleva ben in alto la sacra bilancia, reggendola dal centro dell’asta, e giù vanno le sorti degli achei, mentre le fortune di Troia salgono al cielo. Zeus sorride, ma sono abbastanza vicino da vedere che il vecchio bastardo tiene il pollice su uno dei piatti.

I troiani escono a frotte dalle porte della città, come calabroni da un alveare disturbato. Il cielo è basso, grigio, ribolle di scura energia e i fulmini di Zeus colpiscono con frequenza il campo di battaglia, ma sempre fra gli argivi e i greci dalla lunga capigliatura. Pur vedendo i chiari segni del malcontento del re degli dèi, i greci avanzano a combattere (che altro possono fare?) e la piana di Ilio echeggia del cozzo di scudi di cuoio, dello sfregamento di picche, del frastuono di cocchi, delle grida di moribondi e dei nitriti di cavalli in agonia.

Va male per gli achei fin dall’inizio. I fulmini cadono nelle loro file, arrostiscono guerrieri in corazza di bronzo come polli alla creta in una rosticceria. Ettore carica come una forza della natura: il coraggioso condottiero da me ammirato sulle mura di Ilio, con la moglie e il figlioletto, è sparito, ha lasciato il posto a un berserker — mitico guerriero orso del Nord — sporco di sangue che abbatte nemici come se recidesse steli d’erba e che urla ai suoi uomini di spargere altro sangue, di fare un massacro. Quelli obbediscono, tutto l’esercito troiano e i suoi alleati gridano come da una sola gola, avanzano en masse e si rovesciano, come uno tsunami di bronzo e di cuoio, sugli achei in ritirata.

Paride (che nella descrizione dell’incontro con Ettore, solo il giorno prima, ho liquidato come un damerino e che poi ho provveduto a cornificare) corre sul cocchio a fianco di Ettore e avanza come un’indemoniata macchina omicida. Per uccidere predilige l’arco e oggi le sue lunghe frecce paiono andare sempre a segno. Achei e argivi cadono con una lunga freccia di Paride piantata nella gola, nel cuore, nei genitali, negli occhi. Ogni colpo è un centro.

Ettore si apre a fendenti il varco in ogni sacca di resistenza dei greci, mozza colli come steli di margherite, non concede quartiere e non ascolta implorazioni di pietà, reso sordo dalla frenesia omicida. Quando i greci riescono a raccogliersi qua e là in eroici gruppetti per opporsi al furioso assalto dei troiani, una saetta d’energia blu schizza dalle nubi ribollenti ed esplode fra loro come una granata cosmica; il successivo rombo del tuono si confonde con le urla dei moribondi.