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E intanto l’infezione guadagna terreno dentro di me. Il tempo non è dalla mia parte.

Che ora era? Tarda sera dello stesso giorno che era cominciato con la notizia della scomparsa di Bel. Sembrava impossibile, come se fosse entrato in una distorsione temporale. Miles fissò il suo comunicatore, poi fece un profondo respiro e, non senza esitazione, compose il codice di Ekaterin. Vorpatril l’aveva già informata su quello che stava succedendo, o l’aveva lasciata all’oscuro di tutto?

— Miles! — rispose subito lei.

— Ekaterin, amore. Dove, uhm… dove sei?

— Nella sala tattica, con l’ammiraglio Vorpatril.

Ah. Ecco la risposta alla sua domanda. Era un sollievo non doverle ripetere l’intera litania di brutte notizie. — Allora sei al corrente di quello che sta succedendo, vero?

— Più o meno, ma è tutto molto confuso.

— Ci credo. Io… — Non poteva dirlo, non così nudo e crudo. Ci girò intorno, mentre raccoglieva il coraggio. — Ho promesso di chiamare Nicol quando avessi avuto notizie di Bel, ma non ne ho avuto il tempo. Le notizie, come forse sai, non sono buone; abbiamo trovato Bel, ma è stato infettato con un parassita transgenico cetagandano che potrebbe rivelarsi letale.

— Sì, l’ho sentito.

— Bene. I medici stanno facendo del loro meglio, ma è una corsa contro il tempo e ora sono sorte altre complicazioni. Non è che non ci sia nessuna speranza, ma Nicol deve sapere che in questo momento le probabilità non sono buone. Lascio alla tua sensibilità come dirglielo.

— La mia sensibilità mi dice che bisogna dirle la pura verità. Tutta la Stazione è una baraonda, tra la quarantena e l’allarme da biocontaminazione. Deve sapere cosa sta succedendo; ha il diritto di saperlo. La chiamerò subito.

— Oh. Bene. Grazie. Io, uhm… ti amo, lo sai.

— Sì. Lo so, ma dimmi di te. — La cosa non era facile, ma la disse tutta d’un fiato: — Ecco, anch’io sto passando un brutto guaio. Sono caduto in una trappola del cetagandano che è riuscita a infettarmi il sangue con lo stesso virus di Bel. Però non sembra agire molto rapidamente, e i medici stanno pensando come risolverla.

Nel silenzio che seguì, sullo sfondo poté sentire la voce dell’ammiraglio Vorpatril, che imprecava con un linguaggio che non si confaceva a un ufficiale superiore di Sua Maestà Gregor Vorbarr. Ekaterin era rimasta senza parole e senza respiro. Per fortuna la riproduzione dei suoni di quei comunicatori di lusso era tanto perfetta che poté sentire quando ricominciò a respirare.

— Mi… mi dispiace — riprese Miles — non era questo che avrei voluto dirti. Non volevo darti un dolore…

— Miles. Smettila di parlare a vanvera! — La sua voce era tagliente. — Se muori, non sarò addolorata, sarò furibonda. Va bene tutto, amore, ma non hai tempo di crogiolarti nell’angoscia in questo momento. Tu sei quello che una volta gli ostaggi li liberava per mestiere. Non ti è consentito non uscirne questa volta. Quindi smettila di preoccuparti per me e pensa invece a quello che devi fare. Mi stai ascoltando, Miles Vorkosigan? Non ti provare a morire! Non ho intenzione di tollerarlo! — E questa sembrava l’ultima parola sull’argomento. Nonostante tutto, Miles sorrise.

— Sì, cara — rispose, rincuorato. Le antenate Vor di quella donna avevano difeso delle fortezze in guerra.

— E allora smettila di parlare con me e torna al lavoro. Va bene? — Era quasi riuscita a trattenere il singhiozzo che tremava in quell’ultima parola.

— Tieni il forte per me, amore — mormorò Miles, con tutta la tenerezza di cui era capace.

— Sempre! — La sentì deglutire. — Sempre.

Ekaterin chiuse la comunicazione.

Miles ripensò alla frase che gli aveva appena detto: Salvataggio di ostaggi, eh? Se vuoi che qualcosa sia fatto come si deve, fallo da te miserabile cetagandano. Ma quel ba aveva idea di quale fosse stato un tempo il mestiere di Miles? Forse aveva dato per scontato che fosse semplicemente un diplomatico, un burocrate, o un civile spaventato. E non poteva nemmeno sapere chi aveva comandato a distanza il rientro della tuta da riparazione.

La sua tuta anticontaminazione non sarebbe servita, se si fosse trattato di combattere nello spazio, ma quali altri strumenti, tra quelli di cui poteva disporre, lì in infermeria, poteva usare per scopi non previsti dai loro progettisti? E che persone?

I medici avevano l’addestramento e la disciplina dei militari, ma erano anche impegnati in compiti della massima priorità. Miles non voleva distoglierli dalla cura del loro paziente per portarli con lui a giocare ai commandos.

Assorto in meditazioni, cominciò a camminare in giro per la sala dell’infermeria, aprendo cassetti e armadietti e osservandone il contenuto. Una sensazione di fatica stava cominciando a diminuire la sua eccitazione da adrenalina, e un’emicrania sempre più forte gli prendeva la testa. Cercò di non pensare a quello che poteva presagire.

Si guardò intorno: un infermiere stava per entrare nel bagno con in mano un oggetto dal quale uscivano spire di tubi.

— Capitano Clogston! — chiamò Miles.

— Sì, Milord?

— Sto per uscire e chiudere la porta. Dovrebbe sigillarsi automaticamente in caso di variazioni di pressione, ma non mi fido di nessun apparecchio di questa nave che sia controllato a distanza. In ogni caso lei si tenga pronto a spostare il paziente in un baccello corporeo, se sarà necessario. A che punto siete?

Clogston gli rivolse un saluto vagamente militare con la mano guantata. — Stiamo iniziando a costruire il secondo filtro ematico. Se il primo funziona bene come spero, dovremmo essere in grado molto presto di sistemare anche lei.

La cosa l’avrebbe immobilizzato in una cuccetta. Non era ancora pronto a mettersi a riposo; non finché poteva ancora muoversi e pensare da solo. — Grazie, capitano — disse Miles. — Mi tenga informato. — Fece scorrere la porta con il controllo manuale.

Cosa ne sapeva il ba di come utilizzare tutte le strumentazioni del ponte di comando? Miles rifletté sulla configurazione centrale della nave. Un lungo cilindro diviso in tre ponti. L’infermeria si trovava a poppa del ponte superiore; il pontefdi comando era vicino alla prua, all’altro capo del ponte centrale. Le porte stagne interne di tutti i livelli erano situate alle tre intersezioni equidistanti tra le zone di carico e del motore, e dividevano longitudinalmente ogni ponte in quattro parti uguali.

Nel ponte di comando c’era il monitor per sorvegliare tutte le camere stagne esterne, naturalmente, e monitor di sicurezza in tutte le porte delle sezioni interne che si chiudevano per sigillare la nave in compartimenti stagni. Distruggere un monitor avrebbe accecato il ba, ma l’avrebbe anche avvertito che i prigionieri si stavano muovendo. Distruggerli tutti, o tutti quelli che potevano essere raggiunti, avrebbe creato più confusione… ma rimaneva il problema di non mettere in guardia il ba. Che probabilità c’era che mettesse in atto la sua minaccia disperata?

Maledizione, era tutto così dilettantesco… Miles si fermò, catturato dal suo stesso pensiero.

Quali erano le procedure operative per un agente di Cetaganda la cui missione segreta stava andando a monte? Distruggere tutte le prove; cercare di raggiungere una zona sicura in territorio neutrale. Se questo non era possibile, distruggere le prove e poi tenere duro e lasciarsi arrestare dalle autorità del luogo, e aspettare di essere liberato dai propri amici, con le buone o con le cattive. Per le missioni veramente molto critiche, distruggere le prove e suicidarsi. Quest’ultimo ordine veniva dato raramente, perché ancora più raramente veniva eseguito. Ma i ba cetagandani erano talmente condizionati alla fedeltà ai propri padroni, e padrone, haut che Miles fu costretto a considerare quest’ultima una reale possibilità.