Da allora, per molti anni, ogni volta che vado in Italia, porto questo dizionario con me. Lo metto sempre in borsa. Cerco le parole quando sono per strada, quando torno in albergo dopo un giro, quando provo a leggere un articolo sul giornale. Mi guida, mi protegge, mi spiega tutto.
Diventa sia una mappa che una bussola, senza la quale so che sarei smarrita. Diventa una specie di genitore, autorevole, senza il quale non posso uscire. Lo ritengo un testo sacro, pieno di segreti, di rivelazioni.
Sulla prima pagina, a un certo punto, scrivo: «provare a = cercare di».
Questo frammento casuale, questa equazione lessicale, può essere una metafora dell’amore che provo per l’italiano. Una cosa che, alla fine, non è altro che un ostinato tentativo, una prova continua.
Quasi vent’anni dopo aver comprato il primo dizionario, decido di trasferirmi a Roma per una lunga permanenza. Prima di partire, chiedo a un mio amico, che ha vissuto lì per parecchi anni, se mi serve un dizionario elettronico in italiano, tipo un’app per il cellulare, per cercare una parola in qualsiasi momento.
Ride. Mi dice: «Tra poco abiterai dentro un dizionario italiano».
Ha ragione. Dopo un paio di mesi a Roma, pian piano mi rendo conto di non controllare il dizionario tanto spesso. Quando esco, tende a restare in borsa, chiuso. Di conseguenza comincio a lasciarlo a casa. Mi accorgo di una svolta. Di un senso di libertà, e al contempo di perdita. Di esser cresciuta, almeno un po’.
Oggi ho tanti altri dizionari sulla mia scrivania, più grandi, corposi. Ne ho due monolingue, senza alcun termine inglese. Ormai la copertina di quello piccolino appare un po’ sbiadita, un po’ sporca. Le pagine sono ingiallite. Alcune si stanno staccando dalla rilegatura.
Resta, di solito, sul comodino, così posso controllare facilmente una parola sconosciuta mentre leggo. Questo libro mi permette di leggerne altri, di aprire la porta di una nuova lingua. Mi accompagna, ancora adesso, quando vado in vacanza, durante i viaggi. È diventato una necessità. Se per caso, quando parto, dimentico di portarlo con me, mi sento un po’ a disagio, così come mi sentirei se dimenticassi lo spazzolino da denti o un paio di calze di ricambio.
Ormai quel dizionarietto sembra più un fratello che un genitore. Eppure mi serve, mi guida ancora. Rimane pieno di segreti. Rimane sempre, questo piccolo libro, più grande di me.
IL COLPO DI FULMINE
Nel 1994, quando con mia sorella decidiamo di regalarci un viaggio in Italia, scegliamo Firenze. Sto studiando, a Boston, l’architettura del Rinascimento: la Cappella Pazzi di Brunelleschi, la Biblioteca medicea-laurenziana di Michelangelo. Arriviamo a Firenze all’imbrunire, qualche giorno prima di Natale. Faccio la prima passeggiata al buio. Mi trovo in un luogo intimo, sobrio, gioioso. Negozi addobbati per la stagione. Stradine strette, stipate di gente. Alcune sembrano più corridoi che strade. Ci sono turisti come me e mia sorella, ma non tanti. Vedo le persone che vivono qui da sempre. Camminano in fretta, indifferenti ai palazzi. Attraversano le piazze senza fermarsi.
Io sono venuta per una settimana, per vedere i palazzi, per ammirare le piazze, le chiese. Ma dall’inizio il mio rapporto con l’Italia è tanto uditivo quanto visuale. Benché ci siano poche macchine, la città ronza. Mi rendo conto di un rumore che mi piace, delle conversazioni, delle frasi, delle parole che sento ovunque vada. Come se tutta la città fosse un teatro che ospita un pubblico leggermente inquieto, che chiacchiera, prima dell’inizio di uno spettacolo.
Sento l’eccitazione con cui i bambini si augurano buon Natale per la strada. Sento una mattina all’albergo la tenerezza con cui la donna che pulisce la camera mi chiede: Avete dormito bene? Quando un signore dietro di me vorrebbe passare sul marciapiede, sento la lieve impazienza con cui mi domanda: Permesso?
Non riesco a rispondere. Non sono capace di avere nessun dialogo. Ascolto. Quello che sento, nei negozi, nei ristoranti, desta una reazione istantanea, intensa, paradossale. L’italiano sembra già dentro di me e, al tempo stesso, del tutto esterno. Non sembra una lingua straniera, benché io sappia che lo è. Sembra, per quanto possa apparire strano, familiare. Riconosco qualche cosa, nonostante non capisca quasi nulla.
Cosa riconosco? È bella, certo, ma non c’entra la bellezza. Sembra una lingua con cui devo avere una relazione. Sembra una persona che incontro un giorno per caso, con cui sento subito un legame, un affetto. Come se la conoscessi da anni, anche se c’è ancora tutto da scoprire. So che sarei insoddisfatta, incompleta, se non la imparassi. Mi rendo conto che esiste uno spazio dentro di me per farla stare comoda.
Sento una connessione insieme a un distacco. Una vicinanza insieme a una lontananza. Quello che provo è qualcosa di fisico, di inspiegabile. Suscita una smania indiscreta, assurda. Una tensione squisita. Un colpo di fulmine.
Trascorro la settimana a Firenze a due passi dalla casa di Dante. Un giorno, vado a vedere la piccola chiesa, Santa Margherita dei Cerchi, dove si trova la tomba di Beatrice. L’amata, l’ispirazione del poeta, sempre irraggiungibile. Un amore inappagato, segnato dalla distanza, dal silenzio.
Non avrei un vero bisogno di conoscere questa lingua. Non vivo in Italia, non ho amici italiani. Ho solo il desiderio. Ma alla fine un desiderio non è altro che un bisogno folle. Come in tanti rapporti passionali, la mia infatuazione diventerà una devozione, un’ossessione. Ci sarà sempre qualcosa di squilibrato, di non corrisposto. Mi sono innamorata, ma ciò che amo resta indifferente. La lingua non avrà mai bisogno di me.
Alla fine della settimana, dopo aver visto tanti palazzi, tanti affreschi, torno in America. Porto con me delle cartoline, dei regalini, per ricordare il viaggio. Eppure il ricordo più chiaro, più vivo, è qualcosa di immateriale. Quando penso all’Italia, sento di nuovo certe parole, certe frasi. Sento la loro mancanza. Questa mancanza mi spinge, pian piano, a imparare la lingua. Mi sento sia incalzata dal desiderio sia esitante, timida. Chiedo all’italiano, con una lieve impazienza: Permesso?
L’ESILIO
La mia relazione con l’italiano si svolge in esilio, in uno stato di separazione.
Ogni lingua appartiene a un luogo specifico. Può migrare, può diffondersi. Ma di solito è legata a un territorio geografico, un Paese. L’italiano appartiene soprattutto all’Italia, mentre io vivo in un altro continente, dove non lo si può incontrare facilmente.
Penso a Dante, che attese per nove anni prima di parlare con Beatrice. Penso a Ovidio, bandito da Roma in un luogo remoto. In un avamposto linguistico, circondato da suoni alieni.
Penso a mia madre, che scrive poesie in bengalese, in America. Lei non può trovare, perfino quasi cinquant’anni dopo che vi si è trasferita, un libro scritto nella sua lingua.
In un certo senso mi sono abituata a una specie di esilio linguistico. La mia lingua madre, il bengalese, in America è straniera. Quando si vive in un Paese in cui la propria lingua è considerata straniera, si può provare un senso di straniamento continuo. Si parla una lingua segreta, ignota, priva di corrispondenze con l’ambiente. Una mancanza che crea una distanza dentro di sé.