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Nel mio caso c’è un’altra distanza, un altro scisma. Non conosco il bengalese alla perfezione. Non so leggerlo, neanche scriverlo. Parlo con un accento, senza autorità, per cui ho sempre percepito una sconnessura tra me ed esso. Di conseguenza ritengo che la mia lingua madre sia anche, paradossalmente, una lingua straniera.

In quanto all’italiano, l’esilio ha un aspetto diverso. Non appena ci siamo conosciuti, io e l’italiano ci siamo allontanati. La mia nostalgia sembra una sciocchezza. Eppure, la sento.

Com’è possibile, sentirmi esiliata da una lingua che non è la mia? Che non conosco? Forse perché io sono una scrittrice che non appartiene del tutto a nessuna lingua.

Compro un libro. S’intitola Teach Yourself Italian. Un titolo esortativo, pieno di speranza, di possibilità. Come se fosse possibile imparare da soli.

Avendo studiato il latino per molti anni, trovo i primi capitoli di questo manuale abbastanza facili. Riesco a memorizzare qualche coniugazione, a fare gli esercizi. Ma non mi piace il silenzio, l’isolamento del processo autodidattico. Sembra distaccato, sbagliato. Come se studiassi il funzionamento di uno strumento musicale, senza mai suonarlo.

Decido, all’università, di scrivere la mia tesi di dottorato sull’influenza dell’architettura italiana su alcuni drammaturghi inglesi del diciassettesimo secolo. Mi chiedo la ragione per cui certi drammaturghi abbiano deciso di ambientare le loro tragedie, scritte in inglese, nei palazzi italiani. La tesi parlerà di un altro scisma tra la lingua e l’ambiente. L’argomento mi dà un secondo motivo per studiare l’italiano.

Frequento corsi elementari. La prima insegnante è una signora milanese che vive a Boston. Faccio i compiti, supero gli esami. Ma quando provo a leggere La ciociara di Moravia, dopo due anni di studi, la capisco a malapena. Sottolineo quasi ogni parola su ogni pagina. Devo controllare continuamente il dizionario.

Nella primavera del 2000 vado a Venezia, quasi sei anni dopo il mio viaggio a Firenze. Porto con me, oltre al dizionario, un taccuino in cui prendo, sull’ultima pagina, appunti che potrebbero essere utili: Saprebbe dirmi? Dove si trova? Come si fa per andare? Mi ricordo la differenza tra buono e bello. Mi sento preparata. In realtà, a Venezia, riesco appena a chiedere un’indicazione per la strada, una sveglia all’albergo. Riesco a ordinare in un ristorante e scambiare due parole con una commessa. Nulla di più. Nonostante sia tornata in Italia, mi sento ancora esiliata dalla lingua.

Qualche mese dopo ricevo un invito al Festival della letteratura di Mantova. Lì incontro i miei primi editori italiani. Una di loro è, inoltre, la mia traduttrice. La casa editrice ha un nome spagnolo, Marcos y Marcos. Loro sono italiani. Si chiamano Marco e Claudia.

Devo fare tutte le interviste, le mie presentazioni, in inglese. C’è sempre un interprete accanto a me. Seguo più o meno l’italiano, ma non riesco a esprimermi, spiegarmi, senza l’inglese. Mi sento limitata. Non è sufficiente ciò che ho imparato in America, in aula. La mia comprensione è talmente scarna che, qui in Italia, non mi aiuta. La lingua sembra, tuttora, un cancello chiuso. Sono sulla soglia, vedo all’interno, ma il cancello non si apre.

Marco e Claudia mi danno la chiave. Quando menziono di aver studiato un po’ d’italiano, e che vorrei migliorarlo, smettono di parlare con me in inglese. Passano alla loro lingua, benché io riesca a rispondere solo in modo semplicissimo. Malgrado tutti i miei errori, malgrado io non capisca completamente quello che dicono. Malgrado il fatto che loro parlano inglese molto meglio di quanto io parli italiano.

Loro tollerano i miei sbagli. Mi correggono, mi incoraggiano, mi forniscono le parole che mi mancano. Parlano con chiarezza, con pazienza. Così come i genitori con i loro bambini. Come si impara la lingua madre. Mi rendo conto di non aver imparato l’inglese in questa maniera.

Claudia e Marco, che hanno tradotto e pubblicato il mio primo libro in italiano, e che mi ospitano in Italia per la prima volta da scrittrice, mi regalano questa svolta. Grazie a loro, a Mantova, mi trovo finalmente dentro la lingua. Perché alla fine per imparare una lingua, per sentirsi legati a essa, bisogna avere un dialogo, per quanto infantile, per quanto imperfetto.

LE CONVERSAZIONI

Tornata in America, voglio continuare a parlare italiano. Ma con chi? Conosco alcune persone a New York che lo sanno alla perfezione. Mi vergogno a parlare con loro. Mi serve qualcuno con cui posso stentare, posso fallire.

Un giorno vado alla New York University, all’istituto d’italiano, per intervistare una celebre scrittrice romana che ha vinto il premio Strega. Mi trovo in una sala strapiena, in cui tutti parlano un italiano impeccabile tranne me.

Mi accoglie il direttore. Gli dico che avrei voluto fare l’intervista in italiano. Che ho studiato la lingua anni fa, ma non riesco a parlare bene.

«Bisogno praticare» gli dico.

«Hai bisogno di pratica» mi risponde gentilmente.

Nel 2004 mio marito mi dà una cosa. Un pezzettino di carta strappato da un annuncio, visto per caso, per strada, nel nostro quartiere a Brooklyn. C’è scritto: «Imparare l’italiano». Lo considero un segnale. Chiamo il numero, fisso un appuntamento. Arriva a casa mia una donna simpatica, energica, anche lei di origine milanese. Insegna ai bambini in una scuola privata, abita in periferia. Mi chiede come mai io voglia imparare la lingua.

Spiego che andrò, in estate, a Roma, per partecipare a un altro festival letterario. Sembra un motivo ragionevole. Non rivelo che l’italiano è un mio estro. Che covo una speranza — anzi, il sogno — di conoscerlo bene. Non faccio capire che sto cercando un modo per tener viva una lingua che non c’entra con la mia vita. Che mi angoscio, che mi sento incompleta. Come se l’italiano fosse un libro che non riesco, per quanto lavori, a realizzare.

Ci vediamo una volta alla settimana, per un’oretta. Sono incinta di mia figlia, che nascerà a novembre. Provo a fare due chiacchiere. Alla conclusione di ogni lezione, lei mi dà una lunga lista di parole che mi mancavano durante la conversazione. La ripasso assiduamente. La metto in una cartella. Non riesco a ricordarmele.

Al festival di Roma riesco a scambiare tre, quattro, magari cinque frasi con qualcuno. Dopodiché mi fermo; non mi è possibile fare di più. Conto le frasi, come se fossero i colpi durante una partita di tennis, come se fossero le bracciate quando si impara a nuotare.

Torniamo alla metafora del lago, quello che voglio attraversare. Ora posso camminare nell’acqua, fino al ginocchio, fino alla vita. Ma devo ancora poggiare i piedi sul fondo. Appunto, sono costretta a fare ciò che fanno quelli che non sanno nuotare.

Nonostante le conversazioni, la lingua resta un elemento sfuggente, evanescente. Compare solo grazie all’insegnante. Lei la rende presente a casa mia per un’ora, poi la porta via. Sembra concreta, palpabile, solo quando sono insieme a lei.

Nasce mia figlia, passano altri quattro anni. Porto a termine un altro libro. Dopo la pubblicazione nel 2008, ricevo un altro invito in Italia, per promuoverlo. Per prepararmi trovo una nuova insegnante. Una giovane entusiasta, premurosa, di Bergamo. Anche lei viene una volta alla settimana da me. Parliamo sul divano, una accanto all’altra. Facciamo amicizia. La mia comprensione migliora sporadicamente. L’insegnante mi incoraggia molto, mi dice che parlo bene la lingua, dice che in Italia ce la farò. Ma non è vero. Quando vado a Milano, quando provo a parlare in modo intelligente, in modo scorrevole, mi rendo sempre conto degli sbagli che mi impacciano, che mi confondono, e mi sento avvilita più che mai.