Nel 2009 inizio a studiare con la terza insegnante privata. Una signora veneziana che si è trasferita a Brooklyn più di trent’anni fa, che ha cresciuto i suoi figli in America. Vedova, abita con un cane mansueto, sempre ai suoi piedi, in una casa circondata dal glicine, vicina al ponte di Verrazzano. Ci metto quasi un’ora per raggiungerla. Prendo la metropolitana fino al confine di Brooklyn, quasi al capolinea.
Amo questo viaggio. Esco da casa, lascio alle spalle il resto della mia vita. Non penso alla mia scrittura. Dimentico, per qualche ora, le altre lingue che conosco. Sembra, ogni volta, una piccola fuga. Mi aspetta un luogo in cui conta solo l’italiano. Un riparo da cui si sprigiona una nuova realtà.
Sono molto affezionata alla mia insegnante. Sebbene per quattro anni ci diamo del lei, abbiamo un rapporto stretto, familiare. Sediamo al suo piccolo tavolo, su una panca di legno in cucina. Vedo i suoi libri sugli scaffali, le foto dei suoi nipotini. Magnifiche pentole di ottone appese alle pareti. Ricomincio, a casa sua, da capo: il periodo ipotetico, il discorso indiretto, l’uso della forma passiva. Con lei il mio progetto sembra più possibile che impossibile. Con lei la mia strana dedizione alla lingua sembra più una vocazione che una sciocchezza.
Parliamo delle nostre vite, dello stato del mondo. Facciamo una valanga di esercizi, aridi ma necessari. L’insegnante mi corregge continuamente. Ascoltandola, prendo appunti su un taccuino. Dopo le lezioni mi sento sia spossata sia già pronta per la prossima. Dopo averla salutata, dopo aver chiuso il cancello dietro di me, non vedo l’ora di tornare.
A un certo punto le lezioni con l’insegnante veneziana diventano il mio impegno preferito. Studiando con lei, diventa chiaro il prossimo passo inevitabile in questo mio strambo viaggio linguistico. A un certo punto, decido di trasferirmi in Italia.
LA RINUNCIA
Scelgo Roma. Una città che mi affascina fin da piccola, che mi conquista subito. La prima volta in cui ci sono stata, nel 2003, ho provato un senso di rapimento, un’affinità. Mi sembrava di conoscerla già. Sapevo, dopo solo un paio di giorni, di essere destinata a vivere lì.
A Roma non ho ancora amici. Ma non ci vado per far visita a qualcuno. Vado per cambiare strada, e per raggiungere la lingua italiana. A Roma l’italiano può accompagnarmi ogni giorno, ogni minuto. Sarà sempre presente, rilevante. Cesserà di essere un interruttore da accendere talvolta, poi spegnere.
Per prepararmi, decido, sei mesi prima della partenza, di non leggere più in inglese. D’ora in poi, mi impegno a leggere soltanto in italiano. Mi sembra giusto, distaccarmi dalla mia lingua principale. La ritengo una rinuncia ufficiale. Sto per diventare un pellegrino linguistico a Roma. Credo sia necessario che mi lasci alle spalle qualcosa di familiare, di essenziale.
A un tratto tutti i miei libri non mi servono più. Sembrano oggetti qualsiasi. Sparisce l’ancora della mia vita creativa, recedono le stelle che mi guidavano. Vedo, davanti a me, una stanza nuova, vuota.
Ogni volta che posso, nello studio, sulla metropolitana, a letto prima di dormire, mi immergo nell’italiano. Entro in un altro territorio, inesplorato, lattiginoso. Una specie di esilio volontario. Sebbene mi trovi ancora in America, mi sento già altrove. Mentre leggo mi sento un’ospite, felice ma disorientata. Come lettrice non mi sento più a casa.
Leggo Gli indifferenti e La noia di Moravia. La luna e i falò di Pavese. Le poesie di Quasimodo, di Saba. Riesco a capire e al contempo non capire. Rinuncio alla perizia per sfidarmi. Baratto la certezza con l’incertezza.
Leggo con lentezza, con scrupolo. Con difficoltà. Ogni pagina sembra leggermente coperta dalla foschia. Gli impedimenti mi stimolano. Ogni nuova costruzione sembra una meraviglia. Ogni parola sconosciuta, un gioiello.
Faccio un elenco di termini da controllare, da imparare. Imbambolato, sbilenco, incrinatura, capezzale. Sgangherato, scorbutico, barcollare, bisticciare. Dopo aver terminato un libro, mi emoziono. Mi pare un’impresa. Trovo il processo più impegnativo, eppure più soddisfacente, quasi miracoloso. Non posso dare per scontata la mia capacità di farlo. Leggo come facevo da ragazzina. Così da adulta, da scrittrice, riscopro il piacere di leggere.
In questo periodo mi sento una persona divisa. La mia scrittura non è che una reazione, una risposta alla lettura. Insomma, una specie di dialogo. Le due cose sono strettamente legate, interdipendenti.
Adesso, però, scrivo in una lingua, mentre leggo esclusivamente in un’altra. Sto per ultimare un romanzo, per cui sono per forza immersa nel testo. Non è possibile abbandonare l’inglese. Tuttavia, la mia lingua più forte sembra già dietro di me.
Mi viene in mente Giano bifronte. Due volti che guardano allo stesso tempo il passato e il futuro. L’antico dio della soglia, degli inizi e delle fini. Rappresenta i momenti di transizione. Veglia sui cancelli, sulle porte. Un dio solo romano, che protegge la città. Un’immagine singolare che sto per incontrare ovunque.
LEGGERE CON IL DIZIONARIO
Di solito quando leggo in italiano non uso il dizionario. Solo una penna per sottolineare le parole che non conosco, le frasi che mi colpiscono.
Quando incontro una nuova parola viene il momento di decidere. Potrei fermarmi un attimo per impararla subito, potrei segnarla e andare avanti, oppure ignorarla. Come certi volti tra la gente che si vede ogni giorno per la strada, alcune parole, per qualche ragione, risaltano, quindi lasciano un’impressione su di me. Altre restano sullo sfondo, trascurabili.
Dopo aver finito un libro torno al testo per controllare assiduamente le parole. Mi siedo sul divano su cui sono sparsi il libro, il taccuino, alcuni dizionari, una penna. Richiede tempo, questo mio incarico zelante e rilassante. Non scrivo le definizioni in margine. Faccio un elenco sul taccuino. Prima, le definizioni erano in inglese. Ormai sono in italiano. Così creo una specie di dizionario personale, un vocabolario privato che traccia il percorso della mia lettura. Di tanto in tanto sfoglio il taccuino per ripassare le parole.
Trovo che questa lettura sia più intima, più intensa di quella in inglese, precisamente perché io e la nuova lingua ci conosciamo da poco. Non veniamo dallo stesso posto, dalla stessa famiglia. Non siamo cresciute una accanto all’altra. Nel sangue, dentro le ossa, questa lingua non c’è. Nei confronti dell’italiano, sono attratta e al contempo intimidita. Resta un mistero, amato, impassibile. Di fronte alla mia emozione, non reagisce.
Le parole sconosciute mi ricordano che c’è tanto che non conosco in questo mondo.
Talvolta una parola può suscitare una reazione bizzarra. Un giorno, per esempio, scopro il termine claustrale. Posso azzardare il significato ma vorrei esserne certa. Mi trovo sul treno. Controllo il dizionario tascabile. La parola non c’è. Sono all’improvviso presa, stregata da questa parola. Voglio conoscerla subito. Finché non la capirò mi sento vagamente irrequieta. Per quanto sia un’idea irrazionale, sono convinta che scoprire cosa vuol dire possa cambiare la mia vita.
Credo che ciò che può cambiare la vita esista sempre al di fuori di noi.
Dovrei sognare un giorno, in futuro, in cui non mi serviranno più il dizionario, il taccuino, la penna? Un giorno in cui poter leggere in italiano senza gli attrezzi, così come leggo in inglese? Non dovrebbe essere l’obiettivo di tutto questo?