Выбрать главу

Penso di no. In italiano sono una lettrice più attiva, più coinvolta, anche se più inesperta. Mi piace lo sforzo. Preferisco le limitazioni. So che mi serve, in qualche modo, la mia ignoranza.

Nonostante le limitazioni, mi rendo conto di quanto l’orizzonte sia sconfinato. Leggere in un’altra lingua implica uno stato perpetuo di crescita, di possibilità. So che il mio lavoro, da apprendista, non finirà mai.

Quando ci si sente innamorati, si vuole vivere per sempre. Si vagheggia che l’emozione, l’entusiasmo che si prova, duri. Leggere in italiano mi provoca una brama simile. Non voglio morire perché la mia morte significherebbe la fine della mia scoperta della lingua. Perché ogni giorno ci sarà una nuova parola da imparare. Così il vero amore può rappresentare l’eternità.

Ogni giorno, leggendo, trovo delle parole nuove. Qualcosa da sottolineare, poi trasferire sul taccuino. Mi fa pensare al giardiniere che strappa le erbacce. Così come il giardiniere, so che il mio lavoro in fin dei conti è una follia. Qualcosa di disperato. Quasi, direi, una fatica di Sisifo. Non è possibile, per il giardiniere, controllare alla perfezione la natura. Allo stesso modo non mi è possibile conoscere, per quanto voglia, ogni parola italiana.

Ma tra me e il giardiniere c’è una differenza sostanziale. Le erbacce, per il giardiniere, non sono qualcosa di desiderato. Sono da sradicare, da buttar via. Io invece raccolgo le parole. Voglio tenerle in mano, voglio possederle.

Quando scopro un modo diverso per esprimermi provo una specie di estasi. Le parole sconosciute rappresentano un abisso vertiginoso, fecondo. Un abisso che contiene tutto ciò che mi sfugge, tutto il possibile.

IL RACCOLTO DELLE PAROLE

Sono di continuo a caccia di parole.

Descriverei il processo così: ogni giorno entro in un bosco con un cestino in mano. Trovo le parole tutt’attorno: sugli alberi, nei cespugli, per terra (in realtà: per la strada, durante le conversazioni, mentre leggo). Ne raccolgo quante più possibile. Ma non bastano, ho un appetito insaziabile.

Raccolgo sia quelle che mi sembrano oscure (sciagura, spigliatezza) sia quelle che riesco facilmente a capire ma vorrei conoscere meglio (inviperito, stralunato). Raccolgo delle belle parole che non hanno equivalenti in inglese (formicolare, chiarore). Raccolgo una valanga di aggettivi (malmesso, plumbeo, impiastricciate) per descrivere migliaia di situazioni. Raccolgo innumerevoli sostantivi e avverbi che non mi serviranno mai.

Alla fine della giornata il cestino è pesante, traboccante. Mi sento carica, arricchita, frizzante. Sembrano più preziose dei soldi, le mie parole. Mi sento una mendicante che scopre un mucchio d’oro, un sacco di gemme.

Ma quando esco dal bosco, quando vedo il cestino, rimane appena una manciata di parole. La maggior parte sparisce. Evaporano nell’aria, colano come l’acqua tra le dita. Perché il cestino non è altro che la memoria, e la memoria mi tradisce, la memoria non regge.

Sento un legame con ogni parola che raccolgo. Provo affetto, insieme a un senso di responsabilità. Quando non riesco a ricordarle, temo di averle abbandonate.

Mi sento svuotata, abbattuta, come ci si sente la mattina dopo un sogno favoloso. Il bosco sembra un paradiso, un’allucinazione. Poi mi sveglio.

Benché sconfitta, non mi sento troppo scoraggiata. Semmai, mi sento ancora più determinata. Il giorno dopo, ritorno nel bosco. Non credo che il mio progetto sia uno spreco di tempo. So che il bello è il gesto di raccogliere, non il risultato.

Tuttavia non è sufficiente, neanche soddisfacente, radunare soltanto le parole sul taccuino. Voglio usarle. Voglio attingervi quando ne ho bisogno. Voglio entrare in contatto con loro. Voglio che diventino una parte di me.

Ripasso le parole per impararle, per memorizzarle. Ci penso mentre dialogo con qualcuno. So che ci sono, scritte a mano sul taccuino. Se fossi un genio, ricorderei tutto, così potrei conversare in maniera molto più precisa, sciolta. Ma quando mi servono, le parole sono elusive, imprendibili. Esistono sulla pagina ma non entrano nel cervello, quindi non escono dalla bocca. Restano sul taccuino, incastrate, inutili. Mi accorgo solo del fatto di averle notate.

Rileggendo il taccuino, mi rendo conto di certe parole che devo scrivere più di una volta, che resistono alla mia memoria. Semplici ma ostinate (fruscio, schianto, arguto, broncio), forse non vogliono avere alcun rapporto con me.

Tutte le parole dentro il taccuino sono il segno di una crescita fisica, metodica. Mi vengono in mente le prime settimane di vita dei miei figli, un periodo in cui andavo dalla pediatra ogni settimana per controllare il loro peso. Ogni grammo è stato notato, valutato. Ciascuno è stato prova concreta della loro presenza sulla terra, della loro esistenza. La mia comprensione dell’italiano cresce in modo simile. Acquisisco il mio vocabolario giorno per giorno, parola per parola.

Eppure, il mio lessico si sviluppa senza logica, in maniera guizzante, fugace. Le parole si presentano, mi accompagnano per un po’, poi, spesso senza preavviso, mi abbandonano.

Il taccuino racchiude tutto il mio entusiasmo per la lingua. Tutto lo sforzo. Uno spazio in cui posso vagabondare, imparare, dimenticare, fallire. In cui posso sperare.

IL DIARIO

Arrivo a Roma con la mia famiglia, qualche giorno prima di ferragosto. Non conosciamo questa abitudine di partire in massa. Nel momento in cui quasi tutti scappano via, in cui quasi tutta la città è ferma, proviamo a iniziare un nuovo capitolo della nostra vita.

Affittiamo un appartamento in via Giulia. Una strada elegantissima, a metà agosto desolata. Fa un caldo feroce, insopportabile. Quando usciamo per fare spese, cerchiamo, ogni due passi, il momentaneo sollievo dell’ombra.

La seconda sera, un sabato, rientrando a casa la porta non si apre. Prima si apriva senza problemi. Ora, per quanto provi, la chiave non gira dentro la serratura.

Non c’è nessuno nel palazzo eccetto noi. Siamo senza documenti, ancora senza un telefono funzionante, senza alcun amico o conoscente romano. Chiedo aiuto all’albergo di fronte al palazzo, ma neanche due dei loro impiegati riescono ad aprire la porta. I nostri padroni di casa sono in vacanza in Calabria. I miei figli, sconvolti, affamati, dicono piangendo che vogliono tornare subito in America.

Alla fine viene un tecnico che apre la porta in un paio di minuti. Gli diamo più di duecento euro, senza fattura, per il servizio.

Questo trauma mi pare sia una prova del fuoco, una sorta di battesimo. Ma ci sono parecchi altri ostacoli, piccoli ma scoccianti. Non sappiamo dove portare la differenziata, come comprare una tessera per i mezzi pubblici, dove fermano gli autobus. Tutto va imparato da zero. Se chiedessimo indicazioni a tre romani, ognuno dei tre ci darebbe una risposta diversa. Mi sento scombussolata, spesso schiacciata. Nonostante il mio grande entusiasmo per il fatto di vivere a Roma, ogni cosa sembra impossibile, indecifrabile, impenetrabile.

Una settimana dopo essere arrivata, il sabato dopo quel sabato sera indimenticabile, apro il mio diario per descrivere le nostre disavventure. Quel sabato, faccio qualcosa di strano, inaspettato. Scrivo il diario in italiano. Lo faccio in modo quasi automatico, spontaneo. Lo faccio perché quando prendo la penna in mano, non sento più l’inglese nel cervello. In questo periodo in cui tutto mi confonde, tutto mi turba, cambio la lingua in cui scrivo. Inizio a raccontare, nel modo più impegnativo, tutto ciò che mi mette alla prova.