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Scrivo in un italiano bruttissimo, scorretto, imbarazzante. Senza controllo, senza dizionario, soltanto d’istinto. Vado a tentoni, come un bambino, come una semianalfabeta. Mi vergogno di scrivere così. Non capisco questo impulso misterioso che sbuca dal nulla. Non riesco a smettere.

È come se scrivessi con la mano sinistra, la mia mano debole, quella con cui non devo scrivere. Sembra una trasgressione, una ribellione, una stupidaggine.

Durante i primi mesi a Roma, il mio diario clandestino in italiano è l’unica cosa che mi consola, che mi dà stabilità. Spesso, a notte fonda, sveglia, inquieta, vado alla scrivania per comporre qualche paragrafo in italiano. È un progetto segretissimo. Nessuno sospetta, nessuno sa.

Non riconosco la persona che sta scrivendo in questo diario, in questa nuova lingua approssimativa. Ma so che è la parte più schietta, più vulnerabile di me.

Prima di trasferirmi a Roma scrivevo di rado in italiano. Tentavo di comporre qualche lettera a una mia amica italiana che vive a Madrid, qualche email alla mia insegnante. Sembravano esercizi formali, artificiali. Non sembrava la mia voce. In America non lo era.

A Roma, però, scrivere in italiano sembra l’unico modo di sentirmi presente qui — magari di avere una connessione, soprattutto come scrittrice, con l’Italia. Il nuovo diario, per quanto imperfetto, per quanto crivellato di errori, rispecchia chiaramente il mio disorientamento. Riflette una transizione radicale, uno stato di smarrimento totale.

Nei mesi prima di venire in Italia, cercavo un’altra direzione per la mia scrittura. Volevo un nuovo approccio. Non sapevo che la lingua che avevo studiato pian piano per parecchi anni in America mi avrebbe dato, alla fine, l’indicazione.

Esaurisco un quaderno, ne comincio un altro. Mi viene in mente una seconda metafora: come se, poco attrezzata, scalassi una montagna. È una sorta di sopravvivenza letteraria. Non ho molte parole per esprimermi, tutt’altro. Mi rendo conto di uno stato di deprivazione. Eppure, al contempo, mi sento libera, leggera. Riscopro la ragione per cui scrivo, la gioia insieme all’esigenza. Ritrovo il piacere che provo fin da ragazzina: mettere delle parole in un quaderno, che nessuno leggerà.

In italiano scrivo senza stile, in modo primitivo. Sono sempre in dubbio. Ho soltanto l’intenzione, insieme a una fede cieca ma sincera, di essere capita e di capire me stessa.

IL RACCONTO

Il diario mi fornisce la disciplina, l’abitudine di scrivere in italiano. Ma scrivere soltanto un diario equivale a rinchiudermi in casa, parlando con me stessa. Quello che vi esprimo resta una narrazione privata, interiore. A un certo punto, malgrado il rischio, voglio uscirne.

Inizio con brevissimi pezzi, di solito non più di una pagina scritta a mano. Cerco di focalizzare qualcosa di specifico: una persona, un momento, un luogo. Faccio quello che chiedo ai miei studenti quando mi capita di insegnare scrittura creativa. Spiego loro che frammenti del genere sono i primi passi da fare prima di costruire un racconto. Credo che uno scrittore debba osservare il mondo reale prima di immaginarne uno inesistente.

I miei pezzettini italiani non sono altro che inezie. Eppure lavoro sodo per tentare di perfezionarli. Do il primo pezzo al mio nuovo insegnante d’italiano a Roma. Quando me lo restituisce, sono mortificata. Vedo solo errori, solo problemi. Vedo una catastrofe. Quasi ogni frase va modificata. Correggo la prima bozza a penna rossa. Alla fine della lezione, la pagina contiene tanto inchiostro rosso quanto nero.

Non ho mai tentato, da scrittrice, di fare qualcosa di così impegnativo. Trovo che il mio progetto sia talmente arduo che sembra quasi sadico. Devo ricominciare da capo, come se non avessi mai scritto nulla nella mia vita. Ma, per essere precisi, non mi trovo al punto di partenza: mi trovo invece in un’altra dimensione dove sono senza riferimenti, senza corazza. Dove non mi sono mai sentita così stupida.

Anche se ormai parlo la lingua abbastanza bene, la lingua parlata non mi aiuta. Una conversazione implica una specie di collaborazione e, spesso, un atto di perdono. Quando parlo posso sbagliarmi ma, in qualche modo, riesco a spiegarmi. Sulla pagina sono sola. La lingua parlata è una specie di anticamera rispetto a quella scritta, la quale ha una propria logica, ancora più severa, più inafferrabile.

Nonostante l’umiliazione, continuo. Per la lezione successiva, preparo qualcosa di diverso. Perché sepolto sotto tutti gli errori, tutti gli spigoli, c’è qualcosa di prezioso. Una nuova voce, grezza ma viva, da migliorare, da approfondire.

Un giorno mi trovo in una biblioteca in cui non mi sento molto a mio agio, dove di solito non riesco a lavorare bene. Lì, a una scrivania anonima, mi viene in mente un racconto intero in italiano. Viene in un lampo. Ascolto le frasi nel cervello. Non so da dove vengano, non so come io riesca a sentirle. Scrivo in fretta nel quaderno; temo che tutto sparirà prima che io possa buttarlo giù. Tutto si dipana tranquillamente. Non uso il dizionario. Impiego circa due ore per scrivere la prima metà del racconto. Il giorno dopo ritorno alla stessa biblioteca per un altro paio d’ore, per terminarlo.

Mi accorgo di una spaccatura, insieme a una nascita. Ne sono stordita.

Non mi capita mai di scrivere un racconto in questa maniera. In inglese posso rimuginare quello che scrivo, posso fermarmi dopo ogni frase per cercare le parole giuste, per riordinarle, per cambiare mille volte idea. La mia comprensione dell’inglese è sia un vantaggio sia un intralcio. Riscrivo tutto come una pazza finché non mi soddisfa, mentre in italiano, come un soldato nel deserto, devo semplicemente andare avanti.

Dopo aver ultimato il racconto, preparo una copia al computer. Per la prima volta lavoro sullo schermo in italiano. Le dita sono tese. Non sanno come muoversi sulla tastiera.

So che ci saranno tantissime cose da correggere, da riscrivere.

So che la mia vita, in quanto scrittrice, non sarà più la stessa.

Il racconto s’intitola Lo scambio.

Di cosa parla? La protagonista è una traduttrice insofferente che si trasferisce in una città imprecisata, alla ricerca di un cambiamento. Ci arriva da sola, con quasi nulla, tranne un golfino nero.

Non so come leggere il racconto, non so cosa pensarne. Non so se funziona. Mi mancano le capacità critiche per giudicarlo. Benché sia venuto da me, non sembra completamente mio. Sono certa solo di una cosa: non lo avrei mai scritto in inglese.

Odio analizzare ciò che scrivo. Ma qualche mese dopo, un mattino mentre corro in villa Doria Pamphilj, mi viene in mente, tutto a un tratto, il significato di questo strano racconto: il golfino è la lingua.

LO SCAMBIO

C’era una donna, una traduttrice, che voleva essere un’altra persona. Non c’era un motivo chiaro. Era sempre stato così.

Aveva degli amici, una famiglia, un appartamento, un lavoro. Aveva abbastanza soldi, godeva di buona salute. Aveva, insomma, una vita fortunata, di cui era grata. L’unica cosa che la affliggeva era quello che la distingueva dagli altri.

Quando pensava a ciò che possedeva, provava una mite repulsione, perché ogni oggetto, ogni cosa che le apparteneva, le dava prova della sua esistenza. Ogni volta che aveva un qualsiasi ricordo della sua vita passata, era convinta che un’altra versione sarebbe stata migliore.