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Si considerava imperfetta, come la prima stesura di un libro. Voleva generare un’altra versione di se stessa, nello stesso modo in cui poteva trasformare un testo da una lingua a un’altra. A volte aveva l’impulso di rimuovere la sua presenza dalla terra, come se fosse un filo sull’orlo di un bel vestito, da tagliare via con un paio di forbici.

Eppure non voleva suicidarsi. Amava troppo il mondo, la gente. Amava fare lunghe passeggiate nel tardo pomeriggio osservando ciò che la circondava. Amava il verde del mare, la luce del crepuscolo, i sassi sparsi sulla sabbia. Amava il sapore di una pera rossa in autunno, la luna piena e pesante d’inverno che brillava fra le nuvole. Amava il calore del suo letto, un buon libro da leggere senza interruzione. Per godere di questo, sarebbe vissuta per sempre.

Volendo capire meglio il motivo per cui si sentiva così, decise un giorno di eliminare i segni della sua esistenza. Tranne una piccola valigia, buttò o diede via tutto. Voleva vivere in solitudine, come un monaco, proprio per affrontare ciò che non riusciva a sopportare. Ai suoi amici, alla famiglia, all’uomo che la amava, disse che doveva andarsene per un po’.

Scelse una città in cui non conosceva nessuno, non capiva la lingua, dove non faceva né troppo caldo né troppo freddo. Portò un guardaroba quanto più semplice possibile, tutto in nero: un abito, un paio di scarpe, e un golfino di lana leggera, morbida, con cinque piccoli bottoni.

Arrivò mentre la stagione stava cambiando. Faceva caldo al sole, freddo all’ombra. Prese in affitto una camera. Camminava per ore, vagava senza meta, senza parlare. La città era piccola, piacevole ma priva di personalità, senza turisti. Sentiva i rumori, osservava la gente: chi andava in fretta al lavoro, chi era seduto sulle panchine, come lei, con un libro o con un cellulare, a prendere il sole. Quando aveva fame, mangiava qualche cosa seduta su una panchina. Quando era stanca, andava al cinema a vedere un film.

I giorni si facevano brevi, scuri. Pian piano gli alberi si spogliavano dei colori, delle foglie. La mente della traduttrice si svuotava. Cominciava a sentirsi leggera, anonima. Immaginava di essere una foglia che cadeva, identica a ogni altra.

Di notte dormiva bene. Di mattina si svegliava senza ansie. Non pensava né al futuro, né alle tracce della sua vita. Sospesa nel tempo, come una persona senza ombra. Eppure era viva, si sentiva più viva che mai.

In una brutta giornata, piovosa, ventosa, si mise al riparo sotto il cornicione di un edificio in pietra. La pioggia scrosciava. Non aveva un ombrello, neanche un cappello. La pioggia colpiva il marciapiede, con un suono insistente, continuo. Pensava al viaggio che fa l’acqua, che da sempre cade dalle nuvole, penetrando nella terra, riempiendo i fiumi, arrivando, alla fine, al mare.

La strada era piena di pozzanghere, la facciata del palazzo di fronte a lei era coperta di annunci illeggibili. La traduttrice si accorse di varie donne che entravano e uscivano dal portone. Di tanto in tanto una di loro, da sola o in un piccolo gruppo, arrivava, premeva un campanello, poi entrava. Curiosa, decise di seguirle.

Oltre il portone si doveva attraversare un cortile in cui la pioggia era confinata, come se piovesse in una stanza senza soffitto. Si fermò un momento per guardare il cielo, anche se si bagnava. Più avanti c’era una scala, scura, un po’ sconnessa, dove alcune signore scendevano, altre salivano.

Sul pianerottolo c’era una donna alta, magra, con una faccia grinzosa ma ancora bella. Aveva i capelli corti, chiari, era vestita di nero. L’abito era trasparente, senza una forma precisa, con maniche lunghe e diafane, come due ali. Questa donna accoglieva le altre, con le braccia spalancate.

Venite, venite, ci sono tante cose da vedere.

Dentro l’appartamento la traduttrice lasciò la sua borsa nel corridoio, su un lungo tavolo, come facevano le altre. Oltre il corridoio c’era un grande salotto. C’era una fila piena di abiti neri, lungo un appendiabiti accanto alla parete.

Gli abiti erano come soldati, sull’attenti, ma inanimati. In un’altra parte del salotto c’erano divani, candele accese, un tavolo al centro pieno di frutta, formaggio, una densa torta al cioccolato. In un angolo, un alto specchio diviso in tre parti, in cui ci si poteva guardare da diverse prospettive.

La proprietaria dell’appartamento, che aveva disegnato questi vestiti neri, era seduta su un divano, fumava e chiacchierava. Parlava la lingua del posto perfettamente, ma con un leggero accento. Era una straniera, come la traduttrice.

Benvenute. Prego, mangiate, guardatevi intorno, accomodatevi.

Alcune donne si erano già spogliate, e stavano provando vestiti, sollecitando le opinioni delle altre. Erano una collezione di braccia, gambe, anche, vite. Variazioni incessanti. Sembrava che tutte loro si conoscessero.

La traduttrice si tolse il golfino, si spogliò. Cominciò a provare tutti i vestiti della sua taglia, uno dopo l’altro, metodicamente, come se fosse un compito. C’erano pantaloni, giacche, gonne, camicie, vestiti. Tutti neri, fatti di stoffe morbide, leggere.

Sono ideali per viaggiare, disse la proprietaria. Sono comodi, moderni, versatili. Si possono lavare a mano in acqua fredda. Non si sgualciscono.

Le altre donne erano d’accordo. Dicevano che ormai si mettevano soltanto i vestiti disegnati dalla proprietaria. Li si trovava soltanto andando a casa sua, soltanto grazie a un invito privato. Soltanto in questo modo, segreto, nascosto, festivo.

La traduttrice stava davanti allo specchio. Studiava la propria immagine. Ma era distratta, c’era la presenza di un’altra donna dietro lo specchio, in fondo al corridoio. Era diversa dalle altre. Stava lavorando a un tavolo, con un ferro da stiro, con un ago in bocca. Aveva occhi stanchi, una faccia addolorata.

I vestiti erano eleganti, ben fatti. Anche se le stavano benissimo, alla traduttrice non piacevano. Dopo aver provato l’ultima cosa, decise di uscire. Non si sentiva se stessa in quei vestiti. Non voleva acquistare o accumulare niente di più.

C’erano mucchi di abiti dappertutto, sul pavimento, sui divani, sulle poltrone, come tante pozzanghere scure. Dopo aver rovistato un po’, trovò il suo. Però mancava il golfino nero. Aveva cercato in tutti i mucchi ma non era riuscita a ritrovarlo.

Il salotto era quasi vuoto. Mentre la traduttrice cercava il suo golfino la maggior parte delle donne era andata via. La proprietaria stava preparando una ricevuta per la penultima. Rimaneva solo la traduttrice.

La proprietaria la guardava, come se fosse consapevole per la prima volta della sua presenza.

«E lei, cosa ha deciso di prendere?»

«Niente. Mi manca un golfino, il mio.»

«Il colore?»

«Nero.»

«Ah, mi dispiace.»

La proprietaria chiamò la donna dietro lo specchio. Le chiese di raccogliere i vestiti dal pavimento, di rimettere tutto a posto.

«A questa signora manca un golfino nero» disse. «Non la conosco» continuò. «Come mi ha trovata?»

«Ero fuori. Ho seguito le altre. Non sapevo cosa ci fosse dentro.»

«Non le piacciono, i vestiti?»

«Mi piacciono ma non mi servono.»

«Da dove viene?»

«Non sono di qui.»

«Neanch’io. Ha fame? Gradisce del vino? Della frutta?»

«No, grazie.»

«Scusate.»

Era la donna che lavorava per la proprietaria. Mostrò qualcosa, un indumento, alla traduttrice.

«Ecco» disse la proprietaria. «Era nascosto, abbiamo ritrovato il suo golfino.»