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La traduttrice lo prese. Ma aveva capito subito, senza neanche metterselo, che non era il suo. Era un altro, sconosciuto. La lana era più ruvida, il nero meno intenso, ed era di una misura diversa. Quando lo indossò, quando si guardò nello specchio, lo sbaglio le apparve evidente.

«Questo non è il mio.»

«Cosa dice?»

«Il mio è simile, ma non è questo. Non riconosco questo golf. Non mi sta bene.»

«Ma dovrebbe essere il suo. La donna ha sistemato tutto. Non rimane niente sul pavimento, niente sui divani, guardi.»

La traduttrice non voleva accettare l’altro golfino. Ne provava antipatia, ribrezzo. «Questo non è il mio. Il mio è sparito.»

«Ma come?»

«Forse un’altra donna l’ha preso senza accorgersene. Forse c’è stato uno scambio. Forse c’erano delle altre clienti che indossavano un golfino come questo?»

«Non me lo ricordo. Va bene, posso controllare, aspetti.»

La proprietaria si sedette di nuovo sul divano. Accese una sigaretta. Poi, cominciò a fare una serie di chiamate. Spiegava a una donna dopo l’altra quello che era successo. Scambiava due parole con ognuna.

La traduttrice aspettava. Era convinta che qualcuna di loro avesse preso il suo golf, e che quello lasciato a lei appartenesse a un’altra.

La proprietaria posò il cellulare. «Mi dispiace, signora. Ho chiesto a tutte. Nessuna indossava un golfino nero oggi da me. Solo lei.»

«Ma questo non è il mio.»

Era sicura che non fosse il suo. Al tempo stesso sentiva un’incertezza tremenda che la consumava, che cancellava tutto, che la lasciava senza nulla.

«Grazie di essere venuta, arrivederla» disse la proprietaria. Non disse niente di più.

La traduttrice si sentiva sconcertata, vuota. Era venuta in questa città cercando un’altra versione di sé, una trasfigurazione. Ma aveva capito che la sua identità era insidiosa, una radice che lei non sarebbe mai riuscita a estirpare, un carcere in cui si sarebbe incastrata.

Nel corridoio voleva salutare la donna che lavorava per la padrona, dietro lo specchio, a un tavolo. Ma non c’era più.

Tornò a casa, sconfitta. Fu costretta a indossare l’altro golfino, perché pioveva ancora. Quella sera si addormentò senza mangiare, senza sognare.

Il giorno dopo, quando si svegliò, vide un golfino nero su una sedia nell’angolo della camera. Le era di nuovo familiare. Sapeva che era sempre stato il suo, e che la sua reazione il giorno precedente, la piccola scena che aveva fatto di fronte alle altre due donne, era stata completamente irrazionale, assurda.

Eppure questo golfino non sembrava più lo stesso, non quello che aveva cercato. Quando lo vide, non provava più nessun ribrezzo. Anzi, quando lo indossò, lo preferì. Non voleva ritrovare quello perso, non le mancava. Ora, quando lo indossava, era un’altra anche lei.

IL RIPARO FRAGILE

Quando leggo in italiano mi sento un’ospite, una viaggiatrice. Ciononostante, quello che faccio sembra un compito ragionevole, accettabile.

Quando scrivo in italiano mi sento un’intrusa, un’impostora. Sembra un compito contraffatto, innaturale. Mi accorgo di aver oltrepassato un confine, di sentirmi persa, di essere in fuga. Di essere completamente straniera.

Quando rinuncio all’inglese rinuncio alla mia autorevolezza. Sono traballante anziché sicura. Sono debole.

Da dove viene l’impulso di allontanarmi dalla mia lingua dominante, la lingua da cui dipendo, da cui provengo come scrittrice, per darmi all’italiano?

Prima di diventare un’autrice mi mancava un’identità chiara, nitida. È stato attraverso la scrittura che sono riuscita a sentirmi realizzata. Ma quando scrivo in italiano non mi sento così.

Cosa vuol dire scrivere senza la propria autorevolezza? Posso definirmi un’autrice, senza sentirmi autorevole?

Com’è possibile, quando scrivo in italiano, che mi senta sia più libera sia inchiodata, costretta?

Forse perché in italiano ho la libertà di essere imperfetta.

Come mai mi attrae questa nuova voce, imperfetta, scarna? Come mai mi soddisfa la penuria? Cosa vuol dire rinunciare a un palazzo per abitare quasi per strada, sotto un riparo così fragile?

Forse perché dal punto di vista creativo non c’è nulla di tanto pericoloso quanto la sicurezza.

Mi chiedo quale sia il rapporto tra libertà e limitazioni. Mi chiedo come una prigione possa somigliare al paradiso.

Mi viene in mente qualche riga di Verga che ho scoperto di recente: «Pensare che avrebbe potuto bastarmi quest’angolo di terra, uno spicchio di cielo, un vaso di fiori, per godere tutte le felicità del mondo, se non avessi provato la libertà e se non mi sentissi in cuore la febbre roditrice di tutte le gioie che son fuori di queste mura!»

Chi parla è la protagonista di Storia di una capinera, una novizia di clausura che si sente intrappolata nel convento, che vagheggia la campagna, la luce, l’aria.

Io, in questo momento, preferisco il recinto. Quando scrivo in italiano, mi basta quello spicchio di cielo.

Mi rendo conto che la voglia di scrivere in una nuova lingua deriva da una specie di disperazione. Mi sento tormentata, come la capinera di Verga. Come lei, desidero altro: qualcosa che probabilmente non dovrei desiderare. Ma penso che l’esigenza di scrivere derivi sempre dalla disperazione insieme alla speranza.

So che si dovrebbe conoscere a fondo la lingua in cui si scrive. So che mi manca una vera padronanza. So che la mia scrittura in italiano è qualcosa di prematuro, avventato, sempre approssimativo. Voglio chiedere scusa. Voglio spiegare la fonte di questo mio slancio.

Perché scrivo? Per indagare il mistero dell’esistenza. Per tollerare me stessa. Per avvicinare tutto ciò che si trova al di fuori di me.

Se voglio capire quello che mi colpisce, quello che mi confonde, quello che mi angoscia, in breve, tutto ciò che mi fa reagire, devo metterlo in parole. La scrittura è il mio unico modo per assorbire e per sistemare la vita. Altrimenti mi sgomenterebbe, mi sconvolgerebbe troppo.

Ciò che passa senza esser messo in parole, senza esser trasformato e, in un certo senso, purificato dal crogiuolo dello scrivere, non significa nulla per me. Solo le parole che durano mi sembrano reali. Hanno un potere, un valore superiore a noi.

Visto che io provo a decifrare tutto tramite la scrittura, forse scrivere in italiano è semplicemente il mio modo per apprendere la lingua nel modo più profondo, più stimolante.

Fin da ragazza appartengo soltanto alle mie parole. Non ho un Paese, una cultura precisa. Se non scrivessi, se non lavorassi alle parole, non mi sentirei presente sulla terra.

Cosa significa una parola? E una vita? Mi pare, alla fine, la stessa cosa. Come una parola può avere tante dimensioni, tante sfumature, una tale complessità, così una persona, una vita. La lingua è lo specchio, la metafora principale. Perché in fondo il significato di una parola, così come quello di una persona, è qualcosa di smisurato, di ineffabile.

L’IMPOSSIBILITÀ

In un numero di «Nuovi Argomenti», leggendo un’intervista con il romanziere Carlos Fuentes, trovo questo: «È estremamente utile sapere che non si potrà mai raggiungere certe vette».

Fuentes si riferisce a certi capolavori letterari — opere geniali come Don Chisciotte, per esempio — che restano intoccabili. Credo che queste vette abbiano un doppio ruolo, considerevole, per gli scrittori: ci fanno puntare alla perfezione e ci ricordano la nostra mediocrità.