Tuttavia, sia a Venezia sia sulla pagina, i ponti sono l’unico modo per muovermi in una nuova dimensione, per superare l’inglese, per arrivare altrove. Ogni frase che scrivo in italiano è un piccolo ponte da costruire, poi da attraversare. Lo faccio con titubanza mista a un impulso persistente, inspiegabile. Ogni frase, come ogni ponte, mi porta da un luogo a un altro. È un percorso atipico, seducente. Un nuovo ritmo. Adesso mi sono quasi abituata.
L’IMPERFETTO
Ci sono tantissime cose che continuano a confondermi in italiano. Le preposizioni, per esempio: alla parete, per terra, dal calzolaio, in edicola. Per ripassarle, potrei prendere appunti nel quaderno o sul taccuino. Ho una guida per aiutare lo studente straniero, contenente una serie di esercizi di questo tipo: «Mettiti … miei panni e prova … vedere la situazione … i miei occhi». Sono stucchevoli, ma li faccio lo stesso: se voglio impadronirmi della lingua, non c’è scampo. Più che altro, non riesco mai a riempire quegli spazi alla perfezione. Magari, per imparare le preposizioni una buona volta, basta questa stupenda frase che si trova in un racconto di Moravia: «Sbucammo finalmente su una piazza al sole, in un venticello frizzante da neve, davanti un parapetto oltre il quale non c’era che la luce di un grande panorama che non si vedeva».
Un’altra spina nel fianco è l’uso dell’articolo: non mi è chiaro quando si usa e quando cade. Perché si dice c’è vento, ma c’è il sole? Lotto per capire la differenza tra uno stato d’animo e una busta della spesa, giorni di scirocco e la linea dell’orizzonte. Tendo a sbagliarmi, mettendo l’articolo quando non ce n’è bisogno (tipo: «parliamo del cinema», «sono venuta in Italia per cambiare la strada»), ma leggendo Vittorini, imparo che si dice queste sono fandonie. Grazie a un cartello pubblicitario per strada, imparo che il piacere non ha limiti.
A proposito: rimango incerta sulla differenza tra limite e limitazione, funzione e funzionamento, modifica e modificazione. Certe parole che si somigliano mi tormentano: schiacciare e scacciare, spiccare e spicciare, fioco e fiocco, crocchio e crocicchio. Scambio ancora adesso già per appena.
Talvolta vacillo quando paragono due cose, per cui il taccuino è pieno di frasi del genere: Di questo romanzo mi piace più la prima parte della seconda. Parlo l’inglese meglio dell’italiano. Preferisco Roma a New York. Piove più a Londra che a Palermo.
So che non è possibile conoscere una lingua straniera alla perfezione. Non a caso, ciò che mi confonde di più in italiano è l’uso dell’imperfetto, rispetto al passato prossimo. Dovrebbe essere una cosa abbastanza semplice ma, per qualche ragione, per me non lo è. Quando devo scegliere tra l’uno e l’altro, non so quale sia giusto. Vedo il bivio davanti a me, rallento, e sento che sto per bloccarmi. Sono pervasa dal dubbio. Provo un senso di panico. Non capisco d’istinto la differenza. Come se avessi una specie di miopia temporale.
È solo a Roma, quando comincio a parlare italiano ogni giorno, che mi rendo conto di questo scoglio. Ascoltando i miei amici, raccontando qualcosa al mio insegnante d’italiano, me ne accorgo. Dico c’è stato scritto quando si dice c’era scritto. Dico era difficile quando si dice è stato difficile. Mi confondo soprattutto tra era ed è stato: due facce del verbo essere, quello fondamentale. A Roma, per quasi un anno, la mia confusione diventa un cruccio.
Per aiutarmi, il mio insegnante mi dà qualche immagine: lo sfondo rispetto all’azione centrale. La cornice rispetto al quadro. Una linea sinuosa anziché dritta. Una situazione anziché un fatto.
Si dice la chiave era sul tavolo. In questo caso è una linea sinuosa, una situazione. Eppure a me sembra anche un fatto, il fatto che la chiave fosse sul tavolo.
Si dice siamo stati bene. Qui abbiamo la linea dritta, una condizione con un sapore definitivo. Eppure a me sembra anche una situazione.
La confusione mi fa pensare a un motivo geometrico, una specie di illusione ottica come quella che si trova sui pavimenti delle chiese o dei palazzi antichi: una serie di cubetti di tre colori, un disegno semplice ma complesso che inganna l’occhio. L’effetto di quest’illusione è stupefacente, un po’ sconcertante: la prospettiva si sposta, per cui si vedono contemporaneamente due versioni della stessa cosa, due possibilità.
Alla ricerca di qualche indizio, noto che con gli avverbi sempre e mai si usa spesso il passato prossimo: sono stata sempre confusa, per esempio. Oppure non sono mai stata capace di assorbire questa cosa. Credo di aver scoperto una chiave importante, magari una regola. Poi, sfogliando È stato così di Natalia Ginzburg — un titolo che fornisce un altro esempio del problema —, leggo: «Non mi diceva mai che era innamorato di me … Francesca aveva sempre tante cose da raccontare … Aspettavo sempre la posta». Nessuna regola, solo ancora più confusione.
Un giorno, dopo aver letto Niente, più niente al mondo, un romanzo di Massimo Carlotto, sottolineo come una pazza ogni uso del verbo essere al passato. Scrivo tutte le frasi in un quaderno: «Sei stato dolce.» «C’era ancora la lira.» «È stato così fin da quando era giovane.» «Ero certa che tutto sarebbe cambiato in meglio.» Ma questa fatica risulta inutile. Alla fine imparo solo una cosa: dipende dal contesto, dall’intenzione.
Ormai, la differenza tra l’imperfetto e il passato prossimo mi dà un po’ meno fastidio. So che alla fine di una cena si dice è stata una bella serata, ma che era una bella serata fino a quando non è piovuto. So che sono stata in Grecia per una settimana, ma che ero in Grecia quando mi sono ammalata. Capisco che l’imperfetto si riferisce a una specie di preambolo, un’azione aperta, senza confini, senza inizio o termine. Un’azione sospesa anziché contenuta, inchiodata al passato. Capisco che il rapporto tra l’imperfetto e il passato prossimo è un sistema, complesso e preciso, per rendere più tangibile, più vivido, il tempo già trascorso. Un modo di raccontare qualcosa di astratto, di percepire qualcosa che non c’è.