Inutile dire che questo blocco mi fa sentire, appunto, molto imperfetta. Per quanto frustrante, mi sembra un destino. Mi identifico con l’imperfetto, perché un senso d’imperfezione ha segnato la mia vita. Sto provando da sempre a migliorarmi, a correggermi, perché mi sono sempre sentita una persona difettosa.
Per colpa della mia identità divisa, per colpa, forse, del mio carattere, mi considero una persona incompiuta, in qualche modo manchevole. Può darsi che ci sia una causa linguistica: la mancanza di una lingua con cui possa identificarmi. Da ragazzina, in America, provavo a parlare il bengalese alla perfezione, senza alcun accento straniero, per accontentare i miei genitori, soprattutto per sentirmi completamente figlia loro. Ma non era possibile. D’altro canto volevo essere considerata un’americana, ma nonostante parlassi quella lingua perfettamente, non era possibile neanche quello. Ero sospesa anziché radicata. Avevo due lati, entrambi imprecisi. L’ansia che provavo, e talvolta provo ancora, proviene da un senso di inadeguatezza, di essere una delusione.
Qui in Italia, dove mi trovo benissimo, mi sento imperfetta più che mai. Ogni giorno, mentre parlo, mentre scrivo in italiano, mi scontro con l’imperfezione. Questa linea sinuosa lascia una traccia, mi accompagna ovunque. Mi tradisce, rivela che non sono radicata in questa lingua.
Perché mi interessa, da adulta, da scrittrice, questa nuova relazione con l’imperfezione? Cosa mi offre? Direi una chiarezza sbalorditiva, una consapevolezza più profonda di me stessa. L’imperfezione dà lo spunto all’invenzione, all’immaginazione, alla creatività. Stimola. Più mi sento imperfetta, più mi sento viva.
Scrivo fin da piccola per dimenticare le mie imperfezioni, per nascondermi sullo sfondo della vita. In un certo senso la scrittura è un omaggio prolungato all’imperfezione. Un libro, così come una persona, rimane qualcosa di imperfetto, di incompiuto, durante tutta la sua creazione. Alla fine della gestazione la persona nasce, poi cresce. Ma ritengo che un libro sia vivo solo mentre viene scritto. Dopo, almeno per me, muore.
L’ADOLESCENTE PELOSO
Ricevo un invito per andare a Capri, a un festival letterario. Si tratta di una serie di incontri tra autori anglofoni e italiani; si svolgerà in una piazzetta sul mare, che dà sui faraglioni. Ogni anno il festival è dedicato a un tema su cui gli scrittori si confrontano. Quest’anno sarà «vincitori e vinti». Prima del festival, ai partecipanti viene chiesto di scrivere un pezzo su questo tema, per un catalogo bilingue. Visto che sono una scrittrice anglofona, la supposizione è che io scriverò questo pezzo in inglese, e che poi sarà tradotto in italiano. Ma io, in Italia da quasi un anno, sono ormai talmente presa dalla lingua che cerco di evitare l’inglese il più possibile. Scrivo il pezzo in italiano, per cui serve una traduzione in inglese.
Sarei la traduttrice naturale, ma non ne ho la minima voglia. Non mi interessa, in questo momento, tornare indietro. Anzi, mi fa paura. Quando esprimo la mia riluttanza a mio marito, mi dice: «Ti conviene fare la traduzione da sola. Meglio tu che qualcun altro, altrimenti non sarà sotto il tuo controllo». Seguendo questo consiglio, e avendo il senso del dovere, alla fine decido di tradurmi.
Immaginavo che fosse un compito facilissimo. Una discesa anziché una scalata. Invece mi stupisce quanto lo trovi impegnativo. Quando scrivo in italiano, penso in italiano: per tradurre in inglese, devo risvegliare un’altra parte del cervello. La sensazione non mi piace affatto. Provo un senso di estraneità. Come se mi imbattessi in un fidanzato di cui ero stufa, qualcuno che avevo lasciato anni fa. Non mi seduce più.
Da un lato la traduzione non suona. Mi sembra insulsa, scialba, incapace di esprimere i miei nuovi pensieri. Dall’altro sono sopraffatta dalla ricchezza, la forza, la flessibilità del mio inglese. A un tratto mi vengono in mente migliaia di parole, di sfumature. Una grammatica robusta, nessuna incertezza. Non mi serve alcun dizionario. In inglese non devo inerpicarmi. Mi deprime, questa vecchia conoscenza, questa destrezza. Chi è questa scrittrice, così ben attrezzata? Non la riconosco.
Mi sento infedele. Temo, controvoglia, a malincuore, di aver tradito l’italiano.
Rispetto all’italiano, l’inglese mi sembra prepotente, soggiogante, pieno di sé. Ho l’impressione che, finora in cattività, si sia scatenato e che sia furibondo. Probabilmente, sentendosi trascurato da quasi un anno, ce l’ha con me. Le due lingue si affrontano sulla scrivania, ma il vincitore è già più che ovvio. La traduzione sta divorando il testo originale, lo sta smontando. Mi colpisce quanto questa lotta cruenta esemplifichi il tema del festival, l’argomento stesso del pezzo.
Voglio difendere il mio italiano, che tengo in braccio come un neonato. Voglio coccolarlo. Deve dormire, deve alimentarsi, deve crescere. Rispetto all’italiano, il mio inglese mi sembra un adolescente peloso, puzzolente. Vattene, voglio dirgli. Non molestare il tuo fratellino, sta riposando. Non è una creatura che può correre e può giocare. Non è un ragazzo spensierato, vigoroso, indipendente come te.
Ora mi rendo conto di descrivere il mio rapporto con l’italiano in un altro modo, di aver introdotto una nuova metafora. Finora l’analogia era sempre stata romantica: un colpo di fulmine, un innamoramento. Adesso, mentre traduco me stessa, mi sento la madre di due figli. Mi accorgo di aver cambiato il mio atteggiamento nei confronti della lingua, ma forse il cambiamento riflette uno sviluppo, un percorso naturale. Un tipo d’amore segue l’altro e da un accoppiamento amorevole idealmente nasce una nuova generazione. Provo una passione ancora più intensa, più pura, più trascendente per i miei figli. La maternità è un legame viscerale, un amore incondizionato, una devozione che va oltre l’attrazione e la compatibilità.
Mentre traduco questo breve testo in inglese, mi sento spezzata in due. Non riesco a gestire la tensione, non sono capace di muovermi tra le lingue come un’acrobata. Mi viene in mente la sensazione sgradevole di dover essere due diverse persone allo stesso tempo: una condizione ineluttabile della mia vita. So che Beckett ha tradotto se stesso dal francese all’inglese. Per me non è possibile, perché il mio italiano resta molto più debole. Non sono pari, questi due fratelli, e il mio favorito è il piccolino. Nei confronti dell’italiano non sono neutrale.
Quanto alla traduzione in inglese, la ritengo un obbligo, nient’altro. Lo trovo un processo centripeto. Nessun mistero, nessuna scoperta, nessun incontro con qualcosa al di fuori di me.
Devo ammettere, però, che viaggiare tra le due versioni risulta utile. Alla fine, lo sforzo della traduzione rende la versione in italiano più chiara, più articolata. Serve alla scrittura, anche se sconvolge la scrittrice.
Credo che tradurre sia il modo più profondo, più intimo di leggere qualcosa. Una traduzione è un bellissimo incontro dinamico tra due lingue, due testi, due scrittori. Implica uno sdoppiamento, un rinnovamento. Nel passato amavo tradurre dal latino, dal greco antico, dal bengalese. È stato un modo di avvicinarmi alle diverse lingue, di sentirmi legata ad autori lontanissimi da me, nello spazio e nel tempo. Tradurre me stessa, da una lingua in cui sono ancora un’apprendista, non è la stessa cosa. Dopo aver faticato per realizzare il testo in italiano mi sento appena sbarcata, stanca ma entusiasta. Voglio fermarmi, orientarmi. Il rientro, prematuro, mi fa male. Sembra una disfatta, un regresso. Sembra distruttivo anziché creativo, quasi un suicidio.