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A Capri, faccio la presentazione in italiano. Leggo ad alta voce il mio pezzo su vincitori e vinti. Vedo il testo inglese in blu sulla sinistra, quello italiano, in nero, sulla destra. L’inglese è muto, abbastanza tranquillo. Stampati, rilegati, i fratelli si tollerano. Sono, almeno per il momento, in tregua.

Dopo la lettura comincia una conversazione tra me e due scrittori italiani. C’è anche un’interprete seduta accanto a noi per tradurre in inglese ciò che stiamo dicendo. Dopo qualche frase mi fermo, poi parla lei. Quest’eco in inglese è una cosa incredibile, fantastica: è sia un circolo compiuto sia un rovesciamento totale. Ne sono stupefatta, commossa. Penso a Mantova tredici anni fa e all’interprete senza il quale non potevo esprimermi in italiano davanti al pubblico. Non pensavo che avrei mai raggiunto questo traguardo.

Ascoltando la mia interprete, mi fido per la prima volta del mio italiano. Sebbene rimanga per sempre il fratello minore, il mingherlino se la cava. Grazie al primogenito riesco a vedere il secondo, ad ascoltarlo, perfino ad ammirarlo un po’.

IL SECONDO ESILIO

Dopo aver trascorso un anno a Roma torno per un mese in America. Lì, subito, sento la mancanza dell’italiano. Non poterlo parlare e ascoltare ogni giorno mi angoscia. Quando vado nei ristoranti, nei negozi, in spiaggia, m’infastidisco: come mai la gente non parla italiano? Non voglio interagire con nessuno. Provo un sentimento di nostalgia struggente.

Tutto ciò che ho assorbito a Roma sembra assente. Torniamo alla metafora materna. Penso alle prime occasioni in cui ho dovuto lasciare i miei figli a casa, appena dopo la nascita. Provavo, all’epoca, un’ansia tremenda. Mi sentivo in colpa, anche se questi brevi momenti di separazione erano normali, importanti sia per me sia per loro. È stato importante stabilire che i nostri corpi, fino allora vincolati, erano indipendenti. Eppure, ora come allora, sono acutamente consapevole di un distacco fisico, doloroso. Come se una parte di me non ci fosse più.

Mi rendo conto della lontananza. Di un silenzio opprimente, insopportabile.

Ogni giorno la mancanza dell’italiano mi colpisce sempre di più. Temo di aver già dimenticato tutto ciò che ho imparato. Temo di subire un annientamento. Immagino un vortice divorante, tutte le parole che spariscono nell’oscurità. Faccio sul taccuino una lista di verbi in italiano che indicano l’atto di andarsene: scomparire, svanire, sbiadire, sfumare, finire. Evaporare, svaporare, svampire. Perdersi, dileguarsi, dissolversi. So che alcuni sono sinonimi di morire.

Soffro, finché non mi chiama, un pomeriggio a Cape Cod, una giornalista da Milano, per intervistarmi. Non vedo l’ora che squilli il telefono, ma mentre parlo con lei mi preoccupo che il mio italiano suoni già imbranato, che la mia lingua sia già fuori allenamento. Una lingua straniera è un muscolo gracile, schizzinoso. Se non lo si usa, s’indebolisce. Il mio italiano, in America, mi suona stonato, trapiantato. Il modo di parlare, i suoni, i ritmi, le cadenze, sembrano sradicati, disambientati. Le parole sembrano senza rilevanza, senza una presenza significativa. Sembrano naufraghe, nomadi.

In America, quando ero giovane, i miei genitori mi parevano sempre in lutto per qualcosa. Ora capisco: doveva essere la lingua. Quarant’anni fa non era facile, per loro, sentire le famiglie al telefono. Aspettavano la posta. Non vedevano l’ora che arrivasse una lettera da Calcutta, scritta in bengalese. La leggevano cento volte, la conservavano. Quelle lettere rievocavano la loro lingua e rendevano presente una vita scomparsa. Quando la lingua con cui ci si identifica è lontana, si fa di tutto per tenerla viva. Perché le parole riportano tutto: il luogo, la gente, la vita, le strade, la luce, il cielo, i fiori, i rumori. Quando si vive senza la propria lingua ci si sente senza peso e, allo stesso tempo, sovraccarichi. Si respira un altro tipo d’aria, a una diversa altitudine. Si è sempre consapevoli della differenza.

In America, dopo aver vissuto solo un anno in Italia, mi sento un po’ così. Eppure qualcosa non mi quadra. Non sono italiana, non sono neanche bilingue. L’italiano rimane per me una lingua imparata da adulta, coltivata, covata.

Un giorno a Cape Cod mi trovo a una vendita di libri di seconda mano, all’aperto, in una specie di piazzetta. Ci sono, sull’erba, tanti tavoli pieghevoli colmi di libri di ogni tipo. Costano pochissimo. Di solito amo frugare per un’oretta e comprare un sacco di cose. Questa volta, però, non voglio comprare niente, perché tutti i libri sono in inglese. Sentendomi disperata, ne cerco uno in italiano. C’è perfino qualche scatola dedicata ai libri stranieri. Vedo un dizionario tedesco malconcio, dei romanzi francesi sbrindellati, ma non trovo nulla in italiano. Mi attrae solo una guida turistica dell’Italia scritta in inglese, l’unica cosa che compro, solo perché mi fa pensare al rientro a Roma a fine agosto. Tutti gli altri libri, perfino una copia di uno dei miei romanzi, mi lasciano indifferente. Come se fossero scritti in una lingua straniera.

Ora avverto una doppia crisi. Da un lato mi rendo conto dell’oceano, in ogni senso, tra me e l’italiano. Dall’altro, del distacco tra me e l’inglese. Me ne ero già accorta in Italia, traducendo me stessa. Ma penso che un allontanamento sentimentale sia sempre più spiccato, più lancinante quando, nonostante la prossimità, resta una voragine.

Perché non mi sento più a casa in inglese? Come mai non mi rincuora la lingua in cui ho imparato a leggere, a scrivere? Cosa è successo, e cosa significa? Lo straniamento, il disincanto che provo mi confonde, mi turba. Più che mai mi sento una scrittrice senza una lingua definitiva, senza origine, senza definizione. Se sia un vantaggio o uno svantaggio, non saprei.

A metà del mese vado a trovare la mia insegnante veneziana, a Brooklyn. Questa volta non facciamo nessuna lezione, solo una lunga chiacchierata. Parliamo di Roma, della sua famiglia e della mia. Le porto una scatola di biscottini, le faccio vedere delle foto della mia nuova vita. Lei mi regala alcuni dei suoi libri, in edizione tascabile, presi dagli scaffali: i racconti di Calvino, di Pavese, di Silvio d’Arzo. Le poesie di Ungaretti. È l’ultima volta che vengo qui. La mia insegnante sta per trasferirsi, sta per lasciare Brooklyn. Ha già venduto la casa in cui ha vissuto per parecchi anni, dove facevamo le nostre lezioni. Sta per imballare tutto per il trasloco. D’ora in poi quando tornerò in America, a Brooklyn, non la vedrò più.

Torno a casa con un piccolo mucchio di libri italiani, grazie ai quali, nonostante la malinconia che mi pervade, riesco a tranquillizzarmi. In questo periodo di silenzio, di isolamento linguistico, solo un libro può rassicurarmi. I libri sono i mezzi migliori — privati, discreti, affidabili — per scavalcare la realtà.

Leggo in italiano ogni giorno, ma non scrivo. In America divento passiva. Anche se ho portato i dizionari, i quaderni e i taccuini, non riesco a scrivere neanche una parola in italiano. Non descrivo nulla nel diario, non me la sento. Per quanto riguarda la scrittura, rimango inattiva. Come se mi ritrovassi in una sala d’attesa creativa, non faccio altro che aspettare.

Finalmente, a fine agosto, all’aeroporto, all’imbarco, sono circondata di nuovo dall’italiano. Vedo tutti gli italiani che stanno per tornare al loro Paese dopo le vacanze a New York. Sento le loro chiacchiere. All’inizio provo sollievo, gioia. Subito dopo mi accorgo di non essere come loro. Sono diversa, così come ero diversa dai miei genitori quando andavamo in vacanza dagli Stati Uniti a Calcutta. Non torno a Roma per raggiungere la mia lingua. Torno per continuare a corteggiarne un’altra.