Chi non appartiene a nessun posto specifico non può tornare, in realtà, da nessuna parte. I concetti di esilio e di ritorno implicano un punto di origine, una patria. Senza una patria e senza una vera lingua madre, io vago per il mondo, anche dalla mia scrivania. Alla fine mi accorgo che non è stato un vero esilio, tutt’altro. Sono esiliata perfino dalla definizione di esilio.
IL MURO
C’è una trafittura in ogni gioia. In ogni passione folgorante, un lato cupo.
Il secondo anno a Roma, dopo Natale, vado con la mia famiglia a vedere Paestum, e poi ci fermiamo, per un paio di giorni, a Salerno. Lì, nel centro storico, nella vetrina di un negozietto, mi capita di vedere dei vestiti carini per i bambini. Entro con mia figlia. Mi rivolgo alla commessa. La saluto e le dico che sto cercando dei pantaloni per mia figlia. Descrivo quello che ho in mente, suggerisco dei colori che andrebbero bene, aggiungo che a mia figlia non piacciono i modelli troppo stretti, che preferirebbe qualcosa di comodo. Insomma, parlo abbastanza a lungo con questa commessa, in un italiano ormai scorrevole ma non del tutto autentico.
A un certo punto entra mio marito con nostro figlio. A differenza di me, mio marito, un americano, dall’aspetto potrebbe sembrare un italiano. Lui e io scambiamo qualche parola, sempre in italiano, davanti alla commessa. Gli faccio vedere un giubbotto scontato, che sto considerando per nostro figlio. Lui risponde a monosillabi: va bene, mi piace, sì, vediamo. Nemmeno una frase intera. Mio marito parla lo spagnolo alla perfezione, quindi tende a parlare l’italiano con un accento spagnolo. Dice sessenta y uno invece di sessantuno, bellessa invece di bellezza, nunca invece di mai, per cui i nostri figli lo prendono in giro. Parla bene l’italiano, mio marito, ma non lo parla meglio di me.
Decidiamo di comprare due paia di pantaloni più il giubbotto. Alla cassa, mentre sto pagando, la commessa mi chiede: «Da dove venite?»
Le spiego che abitiamo a Roma, che ci siamo trasferiti in Italia lo scorso anno da New York. A quel punto la commessa dice: «Ma tuo marito deve essere italiano. Lui parla perfettamente, senza nessun accento».
Ecco il confine che non riuscirò mai a varcare. Il muro che rimarrà per sempre tra me e l’italiano, per quanto bene possa impararlo. Il mio aspetto fisico.
Mi viene da piangere. Vorrei urlare: «Sono io che amo perdutamente la vostra lingua, mio marito no. Lui parla italiano solo perché ne ha bisogno, perché gli capita di vivere qui. Sto studiando la vostra lingua da più di vent’anni, lui nemmeno da due. Non leggo altro che la vostra letteratura. Riesco ormai a parlare in italiano in pubblico, a fare interviste radiofoniche in diretta. Tengo un diario italiano, scrivo dei racconti».
Non dico niente alla commessa. La ringrazio, la saluto, poi esco. Capisco che il mio attaccamento all’italiano non vale niente. Che tutta la mia devozione, tutta la foga non significano nulla. Secondo questa commessa, mio marito sa parlare benissimo l’italiano, va lodato; io no. Mi sento umiliata, indignata, invidiosa. Sono senza parole. Dico finalmente a mio marito, in italiano, quando siamo per strada: «Sono sbalordita».
E mio marito mi chiede, in inglese: «Cosa vuol dire, sbalordita?»
L’episodio di Salerno è soltanto un esempio del muro che affronto ripetutamente in Italia. Per colpa del mio aspetto fisico, sono percepita come una straniera. È vero, lo sono. Ma essendo una straniera che parla bene l’italiano, ho due esperienze linguistiche, notevolmente diverse, in questo Paese.
Quelli che mi conoscono mi parlano in italiano. Loro apprezzano che io capisca la loro lingua, la condividono volentieri con me. Quando parlo in italiano con i miei amici italiani mi sento immersa nella lingua, accolta, accettata. Prendo parte alla lingua: nel teatro dell’italiano parlato credo di aver anch’io un ruolo, una presenza. Con gli amici riesco a discutere per ore, a volte per giorni, senza dover contare su nessuna parola inglese. Sono nel mezzo del lago e sto nuotando a modo mio con loro.
Ma quando vado in un negozio come quello di Salerno mi ritrovo, bruscamente, lanciata sulla sponda. Quelli che non mi conoscono, guardandomi, presuppongono che io non sappia parlare l’italiano. Quando mi rivolgo loro in italiano, quando chiedo qualcosa (una testa d’aglio, un francobollo, l’ora), dicono, perplessi: «Non ho capito». È sempre la stessa risposta, lo stesso cipiglio. Come se il mio italiano fosse un’altra lingua.
Non mi capiscono perché non vogliono capirmi; non vogliono capirmi perché non vogliono ascoltarmi, non vogliono accettarmi. Il muro funziona così. Quando qualcuno non mi capisce può ignorarmi; non deve tenere conto di me. Queste persone mi guardano ma non mi vedono. Non apprezzano che io fatichi per parlare la loro lingua, anzi, questo li infastidisce. A volte, quando parlo italiano in Italia, mi sento rimproverata, come un bambino che tocca un oggetto che non va toccato. «Non toccare la nostra lingua» alcuni italiani sembrano dirmi. «Non appartiene a te.»
Imparare una lingua straniera è il modo essenziale per integrarsi con gente nuova in un nuovo Paese. Rende possibile un rapporto. Senza la lingua non ci si può sentire una presenza legittima, rispettata. Si rimane senza voce, senza potere. Non si trova, nel muro, alcuna fessura, alcun punto di entrata. So che se rimanessi in Italia per il resto della mia vita, anche se riuscissi a parlare italiano in modo forbito, irreprensibile, resterebbe, per me, questo muro. Penso a chi è nato e cresciuto in Italia, che considera l’Italia la sua patria, che parla l’italiano perfettamente, ma che sembra, agli occhi di alcuni italiani, «straniero».
Mio marito si chiama Alberto. Per lui, basta stendere la mano, basta dire: «Piacere, sono Alberto». Grazie al suo aspetto, grazie al nome, tutti pensano che sia italiano. Quando faccio io la stessa cosa, le stesse persone dicono: «Nice to meet you». Quando continuo a parlare in italiano, mi chiedono: «Ma come mai parli così bene l’italiano?» E devo fornire una spiegazione, devo dire il perché. Il fatto che parli italiano sembra loro una cosa insolita. Nessuno rivolge la stessa domanda a mio marito.
Una sera, sto per presentare il mio ultimo romanzo in una libreria a Roma, nel quartiere Flaminio. Sono preparata a dialogare con una mia amica italiana — una scrittrice anche lei — su vari spunti letterari. Prima che inizi la presentazione, un uomo, che io e mio marito abbiamo appena conosciuto, mi chiede se farò la presentazione in inglese. Quando gli rispondo, in italiano, che intendo farla in italiano, mi chiede se ho imparato la lingua da mio marito.
In America, sebbene io parli l’inglese come una madrelingua, pur essendo considerata una scrittrice americana, incontro lo stesso muro, ma per motivi diversi. Ogni tanto, a causa del mio nome, del mio aspetto, qualcuno mi chiede come mai ho scelto di scrivere in inglese piuttosto che nella mia lingua madre. Chi mi incontra per la prima volta — quando mi vede, poi impara il nome, poi sente la maniera in cui parlo inglese — mi chiede da dove vengo. Devo giustificare la lingua in cui parlo, anche se la conosco alla perfezione. Se non parlo, anche tanti americani credono che io sia una straniera. Mi ricordo un tizio, un giorno, per strada, che voleva darmi un volantino pubblicitario. Stavo tornando da una biblioteca a Boston; all’epoca stavo scrivendo la mia tesi di dottorato sulla letteratura inglese del diciassettesimo secolo. Quando ho rifiutato di prendere il volantino, il tizio mi ha gridato: «What the fuck is your problem, can’t speak English?»