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Non posso evitare il muro neanche in India, a Calcutta, nella città della mia cosiddetta lingua madre. Lì, a parte i miei parenti che mi conoscono da sempre, quasi tutti pensano che io, nata e cresciuta fuori dall’India, parli solo inglese, o che capisca appena il bengalese. Nonostante il mio aspetto e il nome indiano, si rivolgono a me in inglese. Quando rispondo in bengalese, esprimono la stessa sorpresa di certi italiani, di certi americani. Nessuno, da nessuna parte, dà per scontato che io parli le lingue che sono una parte di me.

Sono una scrittrice: mi identifico a fondo con la lingua, lavoro con essa. Eppure il muro mi tiene a distanza, mi separa. Il muro è qualcosa di inevitabile. Mi circonda ovunque vada, per cui mi chiedo se forse il muro non sia io.

Scrivo per rompere il muro, per esprimermi in modo puro. Quando scrivo non c’entra il mio aspetto, il mio nome. Vengo ascoltata senza essere vista, senza pregiudizi, senza filtro. Sono invisibile. Divento le mie parole, e le parole diventano me.

Quando scrivo in italiano devo accettare un secondo muro, altissimo, ancora più ermetico: il muro della lingua in sé. Ma dal punto di vista creativo questo muro linguistico, per quanto esasperante, m’interessa, mi ispira.

Un ultimo esempio: un giorno a Roma vado a pranzo con il mio editore italiano e sua moglie all’Hotel d’Inghilterra. Parliamo della pubblicazione del mio ultimo romanzo in Italia, e di cosa sto scrivendo ora, del mio desiderio di scrivere qualcosa sul mio rapporto con la lingua italiana. Parliamo di Anna Maria Ortese e di altri autori italiani che mi piacerebbe tradurre. Il mio editore mi sembra entusiasta di questi nuovi progetti che ho in mente. Dice che quel che vorrei fare — scrivere, per il momento, in italiano — gli sembra una buona idea.

Dopo pranzo, nella vetrina di un negozio di scarpe e borse in via del Corso, vedo qualcosa di bello. Entro nel negozio. Questa volta non dico nulla. Taccio. Ma la commessa, vedendomi, chiede subito: «May I help you?» Quattro parole garbate che, ogni tanto in Italia, mi spezzano il cuore.

IL TRIANGOLO

Vorrei soffermarmi sulle tre lingue che conosco. A questo punto mi serve un resoconto del mio rapporto con ciascuna, e dei collegamenti tra loro.

Il primo idioma della mia vita è stato il bengalese, tramandato dai miei genitori a me. Per quattro anni, finché non sono andata a scuola in America, è stata la mia lingua principale, in cui mi sono sentita a mio agio, anche se sono nata e cresciuta in Paesi in cui mi circondava un’altra lingua: l’inglese. Il mio primo incontro con l’inglese è stato duro, sgradevole: quando sono stata mandata all’asilo sono rimasta traumatizzata. Mi era difficile fidarmi delle maestre e fare amicizie, perché dovevo esprimermi in una lingua che non parlavo, che conoscevo a malapena, che mi sembrava estranea. Volevo soltanto tornare a casa, alla lingua in cui ero conosciuta, ero amata.

Qualche anno dopo, però, il bengalese ha fatto un passo indietro, quando sono diventata una lettrice. Avevo sei o sette anni. Da allora la mia lingua madre non è stata più capace, da sola, di crescermi. In un certo senso è morta. È arrivato l’inglese, una matrigna.

Sono diventata una lettrice appassionata per conoscere la matrigna, per decifrarla, per soddisfarla. Eppure la lingua madre rimaneva un fantasma esigente, ancora presente. I miei genitori volevano che io parlassi soltanto il bengalese con loro e con tutti i loro amici. Se parlavo inglese a casa mi rimproveravano. La parte di me che parlava inglese, che andava a scuola, che leggeva e scriveva, era un’altra persona.

Non riuscivo a identificarmi con nessuna delle due. Una era sempre celata dietro l’altra, ma mai completamente, così come la luna piena può nascondersi quasi tutta la notte dietro una massa di nuvole per poi emergere di colpo, abbagliante. Nonostante parlassi soltanto il bengalese con i miei, c’era sempre l’inglese nell’aria, per la strada, sulle pagine dei miei libri. D’altro canto, ogni giorno, dopo aver parlato in inglese per parecchie ore in aula, tornavo a casa, un luogo dove l’inglese non c’era. Mi rendevo conto di dover parlare entrambe le lingue benissimo: l’una per compiacere i miei genitori, l’altra per sopravvivere all’America. Restavo sospesa, combattuta tra queste due lingue. L’andirivieni linguistico mi scompigliava; mi sembrava una contraddizione che non potevo risolvere.

Non andavano d’accordo, queste due mie lingue. Mi sembravano avversarie incompatibili, l’una insofferente all’altra. Pensavo che non avessero nulla in comune tranne me, per cui mi sentivo una contraddizione in termini anch’io.

Per la mia famiglia l’inglese rappresentava una cultura straniera alla quale non voleva arrendersi. Il bengalese rappresentava la parte di me che apparteneva ai miei genitori, che non apparteneva all’America. Nessuna mia maestra a scuola, nessuna mia amica è stata mai incuriosita dal fatto che io parlassi un’altra lingua. Non lo apprezzavano, non mi chiedevano niente. Non gli interessava, come se quella parte di me, quella capacità, non ci fosse. Così come l’inglese per i miei genitori, il bengalese, per gli americani che conoscevo da ragazza, rappresentava una cultura remota, sconosciuta, sospetta. O forse in realtà non rappresentava niente. A differenza dei miei, che conoscevano bene l’inglese, gli americani erano del tutto inconsapevoli della lingua che parlavamo a casa. Per loro il bengalese era qualcosa che potevano tranquillamente ignorare.

Più leggevo e imparavo in inglese più mi identificavo, da ragazza, con esso. Cercavo di essere come le mie amiche, che non parlavano nessun’altra lingua. Che avevano, secondo me, una vita normale. Mi vergognavo di dover parlare in bengalese davanti alle mie compagne americane. Odiavo sentire mia madre al telefono se mi capitava di essere da una mia amica. Volevo occultare, quanto più possibile, il mio rapporto con quella lingua. Volevo negarlo.

Mi vergognavo di parlare bengalese, e al contempo mi vergognavo di provare vergogna. Non era possibile parlare in inglese senza avvertire un distacco dai miei genitori, senza provare una sensazione inquietante di separazione. Parlando in inglese, mi trovavo in uno spazio in cui mi sentivo isolata, in cui non ero più sotto la loro protezione.

Vedevo le conseguenze del non parlare l’inglese alla perfezione, di parlarlo con un accento straniero. Vedevo il muro che i miei genitori affrontavano quasi ogni giorno in America. Era una loro insicurezza persistente. Dovevo spiegare il significato di alcuni termini a loro, come se fossi io il genitore. A volte parlavo per loro. Nei negozi americani i commessi tendevano a rivolgersi a me, semplicemente perché non avevo, in inglese, un accento straniero. Come se mio padre e mia madre, con il loro accento, non potessero capire. Detestavo l’atteggiamento di quei commessi nei confronti dei miei genitori. Volevo difenderli. Avrei voluto protestare: «Loro capiscono tutto quello che dite, mentre voi non siete capaci di capire nemmeno una parola né del bengalese né di nessun’altra lingua al mondo». Eppure dava fastidio anche a me se i miei pronunciavano una parola inglese in modo sbagliato. Li correggevo, impertinente. Non volevo che fossero vulnerabili. Non mi piaceva il mio vantaggio, il loro svantaggio. Avrei voluto che parlassero l’inglese esattamente come me.

Ho dovuto giostrarmi tra queste due lingue finché, a circa venticinque anni, non ho scoperto l’italiano. Non c’era alcun bisogno di imparare questa lingua. Nessuna pressione familiare, culturale, sociale. Nessuna necessità.

L’arrivo dell’italiano, il terzo punto sul mio percorso linguistico, crea un triangolo. Crea una forma anziché una linea retta. Un triangolo è una struttura complessa, una figura dinamica. Il terzo punto cambia la dinamica di questa vecchia coppia litigiosa. Io sono figlia di quei punti infelici, ma il terzo non nasce da loro. Nasce dal mio desiderio, dalla mia fatica. Nasce da me.