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Credo che studiare l’italiano sia una fuga dal lungo scontro, nella mia vita, tra l’inglese e il bengalese. Un rifiuto sia della madre sia della matrigna. Un percorso indipendente.

Dove mi porta, questo nuovo tragitto? Dove finisce la fuga, e quando? Dopo essere fuggita, cosa farò? In realtà non è una fuga nel senso stretto della parola. Pur fuggendo, mi accorgo che sia l’inglese sia il bengalese mi affiancano. Così come in un triangolo, un punto conduce inevitabilmente all’altro.

L’inglese e l’italiano sembrano i punti più vicini. Avendo in comune molte parole di origine latina, condividono un certo territorio. Inutile dire che mi capita spesso in italiano di incontrare una parola che conosco già grazie all’equivalente inglese. Non posso negare che la mia comprensione dell’inglese mi aiuti. Ma può anche ingannarmi. Ogni tanto penso di capire il significato di una parola in italiano grazie alla radice latina, ma quando devo definirla mi sbaglio, e mi rendo conto di non aver imparato bene il significato neanche in inglese. La mia comprensione dell’italiano più cresce, più svela una debolezza anche in inglese. Il processo approfondisce la mia comprensione di entrambe le lingue, per cui la fuga mi sembra anche un ritorno.

Al di là della comune radice indoeuropea, il bengalese e l’italiano sembrano due punti molto più distanti di quanto siano l’italiano e l’inglese. Hanno, per quanto ne sappia, solo una parola dal significato in comune: gola. In bengalese si dice chi per che, e che per significare chi. Sono sciocchezze. Eppure il bengalese mi aiuta in un altro modo. Grazie al fatto che sono cresciuta parlando bengalese, non parlo l’italiano con un accento anglofono. Per quanto riguarda la pronuncia dell’italiano, ho una lingua già adattata, condizionata. Riconosco tutte le consonanti, le vocali, i dittonghi italiani; li trovo naturali. Dal punto di vista fonetico, trovo il bengalese molto più vicino all’italiano rispetto all’inglese. Devo ammettere, dunque, che in questa fuga, per certi versi, anche il bengalese mi accompagna, mi aiuta.

Da dove viene l’impulso di introdurre una terza lingua nella mia vita, di creare questo triangolo? Come appare? È un triangolo equilatero, o no?

Se lo disegnassi userei una penna per rendere il lato inglese, una matita per gli altri due. L’inglese rimane la base, il lato più stabile, fisso. Il bengalese e l’italiano sono entrambi più deboli, indistinti. L’uno ereditato, l’altro adottato, voluto. Il bengalese è il mio passato, l’italiano, magari, una nuova stradina nel futuro. La mia prima lingua è la mia origine, l’ultima, il traguardo. In entrambe mi sento una bambina, un po’ goffa.

Temo che i lati a matita possano sparire, così come un disegno può essere cancellato da una gomma. Il bengalese sarà portato via quando non ci saranno più i miei genitori. È una lingua che loro personificano, che loro incarnano. Quando saranno morti, cesserà di essere fondamentale nella mia vita.

L’italiano resta una lingua esterna. Potrebbe sparire anche quella, soprattutto quando dovrò lasciare l’Italia, se non continuerò a coltivarla.

L’inglese rimane il presente: permanente, indelebile. La matrigna non mi abbandona. Per quanto sia una lingua imposta, mi ha regalato una voce pulita, corretta, per sempre.

Penso che questo triangolo sia una specie di cornice. E che questa cornice contenga il mio autoritratto. La cornice mi definisce, ma cosa contiene?

Per tutta la mia vita ho voluto vedere, dentro la cornice, qualcosa di specifico. Volevo che dentro la cornice ci fosse uno specchio capace di riflettere un’immagine precisa, nitida. Volevo vedere una persona integra anziché frammentata. Ma questa persona non c’era. Per colpa della mia doppia identità vedevo solo oscillazione, distorsione, dissimulazione. Vedevo qualcosa di ibrido, di sfocato, di sempre confuso.

Penso che non poter vedere un’immagine specifica dentro la cornice sia il rovello della mia vita. L’assenza dell’immagine che cercavo mi pesa. Ho paura che lo specchio non rifletta altro che un vuoto, che non rifletta nulla.

Vengo da questo vuoto, da questa incertezza. Credo che il vuoto sia la mia origine e anche il mio destino. Da questo vuoto, da tutta questa incertezza, viene l’impulso creativo. L’impulso di riempire la cornice.

LA METAMORFOSI

Poco prima che iniziassi a scrivere queste riflessioni ho ricevuto un’email da un mio amico a Roma, lo scrittore Domenico Starnone. Riferendosi al mio desiderio di appropriarmi dell’italiano, ha scritto: «Una lingua nuova è quasi una vita nuova, grammatica e sintassi ti rifondono, scivoli dentro un’altra logica e un altro sentimento». Quanto mi hanno rinfrancato queste parole. Sembravano echeggiare il mio stato d’animo dopo essere arrivata a Roma e dopo aver cominciato a scrivere in italiano. Contenevano tutta la mia smania, tutto il mio spaesamento. Leggendo questo messaggio, ho capito meglio il desiderio di esprimermi in una nuova lingua: riuscire a sottopormi, da scrittrice, a una metamorfosi.

Nello stesso periodo in cui ho ricevuto questo messaggio, qualcuno mi ha chiesto, durante un’intervista, quale fosse il mio libro preferito. Ero a Londra, su un palco con cinque altri scrittori. Di solito mi secca, questa domanda: non esiste, per me, nessun libro definitivo, perciò non so mai come rispondere. Questa volta, però, sono riuscita a rispondere senza alcuna esitazione che il mio libro preferito era Le metamorfosi di Ovidio. Lo considero un testo maestoso, un poema che riguarda tutto, che rispecchia tutto. L’ho letto per la prima volta venticinque anni fa, in latino. Ero una studentessa universitaria negli Stati Uniti. È stato un incontro indimenticabile, forse la lettura più soddisfacente della mia vita. Per raggiungere questo poema ho dovuto ostinarmi, traducendo ogni parola. Ho dovuto dedicarmi a una lingua straniera, antica, esigente. Eppure la scrittura di Ovidio mi ha conquistata, ne sono rimasta ammaliata. Ho scoperto un’opera sublime, in un linguaggio vivo, trascinante. Come ho già detto, credo che leggere in una lingua straniera sia il modo più intimo di leggere.

Mi ricordo come se fosse ieri il momento in cui Dafne, la ninfa, si trasforma in un albero di alloro. Sta fuggendo da Apollo, il dio incalzante che la desidera. Lei vorrebbe restare sola, casta, dedita, come la vergine Diana, al bosco e alla caccia. La ninfa, stremata, incapace di sfuggire al dio, supplica suo padre Peneo, una divinità fluviale, di aiutarla. Scrive Ovidio: «Ha appena finito questa preghiera, che un pesante torpore le pervade le membra, il tenero petto si fascia di una fibra sottile, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; il piede, poco prima così veloce, resta inchiodato da pigre radici, il volto svanisce in una cima». Quando Apollo poggia la mano sul tronco di quest’albero «sente il petto trepidare ancora sotto la corteccia fresca».

La metamorfosi è un processo sia violento che rigenerativo, sia una morte che una nascita. Non è chiaro dove finisca la ninfa e dove inizi l’albero; il bello di questa scena è che raffigura la fusione di due elementi, di entrambi gli esseri. Si vedono, una accanto all’altra, le parole che descrivono sia Dafne che l’albero (nel testo latino frondem/crines, ramos/bracchia, cortice/pectus). La contiguità di queste parole, una giustapposizione letterale, rinforza lo stato di contraddizione, di intrecciamento. Ci dà una duplice impressione, spiazzante. Esprime il concetto nel senso mitico, direi primordiale, di essere due cose allo stesso tempo. Di essere qualcosa di indistinto, di ambiguo. Di avere una doppia identità.