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Finché non si è trasmutata, Dafne corre per salvarsi la vita. Adesso sta ferma, non riesce più a muoversi. Apollo può toccarla ma non può possederla. Per quanto sia crudele, la metamorfosi è la sua salvezza. Da un lato perde la sua indipendenza. Dall’altro, come albero, si ferma per sempre nel bosco, il luogo che le è proprio, in cui si gode un altro tipo di libertà.

Come ho detto prima, penso che la mia scrittura in italiano sia una fuga. Sviscerando la mia metamorfosi linguistica, mi rendo conto che sto cercando di allontanarmi da qualcosa, di emanciparmi. Dopo aver scritto in italiano per quasi due anni mi sento già trasformata, quasi rinata. Ma il cambiamento, questa nuova apertura, costa: come Dafne, anch’io mi trovo inchiodata. Non riesco a muovermi come prima, nello stesso modo in cui ero abituata a muovermi in inglese. Ora una nuova lingua, l’italiano, mi copre come una specie di corteccia. Resto dentro: rinnovata, incastrata, sollevata, scomoda.

Come mai sto fuggendo? Cosa m’insegue? Chi vorrebbe trattenermi?

La risposta più ovvia sarebbe: la lingua inglese. Ma ritengo che non sia tanto l’inglese in sé quanto tutto ciò che ha simboleggiato per me. Per quasi tutta la mia vita ha rappresentato una lotta estenuante, un conflitto struggente, un continuo senso di fallimento da cui deriva quasi tutta la mia angoscia. Ha rappresentato una cultura da dover scalare, da interpretare. Temevo che rappresentasse una spaccatura tra me e i miei genitori. L’inglese significa un aspetto del mio passato pesante, ingombrante. Ne sono stanca.

Eppure, ne ero innamorata. Sono diventata una scrittrice in inglese. E poi, in modo piuttosto precipitoso, sono diventata una scrittrice famosa. Ho ricevuto un premio che ero convinta di non meritare, che mi sembrava uno sbaglio. Per quanto sia stato un onore, ne sono rimasta insospettita. Non sono riuscita a unirmi a quel riconoscimento, che ha cambiato la mia vita. Da allora in poi sono stata considerata un’autrice di successo, per cui ho smesso di sentirmi un’apprendista, sconosciuta, quasi anonima. Tutta la mia scrittura scaturisce da un luogo nel quale mi sento invisibile, inaccessibile. Ma un anno dopo la pubblicazione del mio primo libro ho perso il mio anonimato.

Scrivendo in italiano, penso di fuggire sia i miei fallimenti nei confronti dell’inglese sia il mio successo. L’italiano mi offre un percorso letterario ben diverso. In quanto scrittrice posso smantellarmi, posso ricostruirmi. Posso radunare parole e lavorare alle frasi senza mai essere considerata un’esperta. Fallisco per forza quando scrivo in italiano, ma a differenza del mio senso di fallimento nel passato, non ne resto tormentata, amareggiata.

Se dico che ora sto scrivendo in una nuova lingua, molti reagiscono male. Negli Stati Uniti, alcuni mi consigliano di non farlo. Dicono che non vogliono leggermi tradotta da una lingua straniera. Non vogliono che io cambi. In Italia, anche se tanti mi incoraggiano a fare questo passo e mi sostengono, mi viene chiesto tuttavia come mai io abbia voglia di scrivere in una lingua letta, nel mondo, molto meno di quanto lo sia l’inglese. Alcuni dicono che la mia rinuncia all’inglese potrebbe essere rovinosa, che la mia fuga potrebbe condurmi in una trappola. Non capiscono la ragione per cui voglio correre un tale rischio.

Non mi stupiscono, le loro reazioni. Una trasformazione, soprattutto se è voluta, cercata, è spesso percepita come qualcosa di sleale, di minaccioso. Sono figlia di una madre che non ha voluto mai cambiare se stessa. Continuava negli Stati Uniti, il più possibile, a vestirsi, comportarsi, mangiare, pensare, vivere come se non avesse mai lasciato l’India, Calcutta. Il rifiuto di modificare il suo aspetto, le sue abitudini, i suoi atteggiamenti, era la sua strategia per resistere alla cultura americana, soprattutto per combatterla, per mantenere la sua identità. Diventare o perfino somigliare a un’americana avrebbe significato una sconfitta totale. Quando torna a Calcutta, mia madre si sente orgogliosa perché, anche se ha passato quasi cinquant’anni lontano dall’India, sembra una che è sempre rimasta lì.

Io sono il contrario. Mentre il rifiuto di cambiare era la ribellione di mia madre, la voglia di trasformarmi è la mia. «C’era una donna … che voleva essere un’altra persona»: non è un caso che Lo scambio, il mio primo racconto in italiano, inizi con questa frase. Per tutta la vita ho provato ad allontanarmi dal vuoto della mia origine. Era il vuoto che mi sgomentava, da cui fuggivo. Ecco perché non ero mai soddisfatta di me. Alterare me stessa sembrava l’unica soluzione. Scrivendo, ho scoperto un modo di nascondermi nei miei personaggi, di eludermi. Di sottopormi a una mutazione dopo l’altra.

Si potrebbe dire che il meccanismo metamorfico sia l’unico elemento della vita che non cambia mai. Il percorso di ogni individuo, di ogni Paese, di ogni epoca storica, dell’universo intero e tutto ciò che contiene, non è altro che una serie di mutamenti, a volte sottili, a volte profondi, senza i quali resteremmo fermi. I momenti di transizione, in cui qualcosa si tramuta, costituiscono la spina dorsale di tutti noi. Che siano una salvezza o una perdita, sono i momenti che tendiamo a ricordare. Danno un’ossatura alla nostra esistenza. Quasi tutto il resto è oblio.

Credo che il potere dell’arte sia il potere di svegliarci, di colpirci fino in fondo, di cambiarci. Cosa cerchiamo leggendo un romanzo, guardando un film, ascoltando un brano di musica? Cerchiamo qualcosa che ci sposti, di cui non eravamo consapevoli, prima. Vogliamo trasformarci, così come il capolavoro di Ovidio ha trasformato me.

Nel mondo animale una metamorfosi è qualcosa di previsto, di naturale. Vuol dire un passaggio biologico, fasi specifiche che conducono, alla fine, a uno sviluppo completo. Quando un bruco si è trasformato in farfalla non c’è più un bruco ma una farfalla. L’effetto della metamorfosi è radicale, permanente. Avendo perso la vecchia forma, ne assume una nuova, irriconoscibile. Rispetto alla creatura precedente ha nuovi tratti fisici, una nuova bellezza, nuove capacità.

Una metamorfosi totale non è possibile nel mio caso. Posso scrivere in italiano ma non posso diventare una scrittrice italiana. Nonostante io scriva questa frase in italiano, la parte di me condizionata a scrivere in inglese resta. Penso a Fernando Pessoa, che ha inventato quattro versioni di se stesso: quattro autori separati, distinti, grazie ai quali è riuscito a oltrepassare i confini di sé. Forse quello che sto facendo, tramite l’italiano, somiglia più alla sua tattica. Non è possibile diventare un’altra scrittrice, ma forse sarebbe possibile esserne due.

Curiosamente, mi sento più protetta quando scrivo in italiano, anche se sono molto più esposta. È vero che una nuova lingua mi copre, ma a differenza di Dafne ho una protezione permeabile, mi trovo quasi senza pelle. Sebbene mi manchi una corteccia spessa, sono, in italiano, una scrittrice indurita, che cresce diversamente, radicata di nuovo.

SONDARE

Tra il 1948 e il 1950, gli ultimi due anni della sua vita, Cesare Pavese, in quanto collaboratore della casa editrice Einaudi, scrive una serie di lettere a Rosa Calzecchi Onesti, ormai famosa per le sue innovative traduzioni dell’Iliade e dell’Odissea. Tramite una fitta e vivace corrispondenza fra Torino e Cesena, Pavese, che non conosce la traduttrice di persona, la spinge a rendere Omero in maniera fedele ma moderna in italiano, e a puntare a un linguaggio meno arcaico, più piano. Leggendo con scrupolo, confrontando meticolosamente la traduzione con il testo originale, esaminando tutto con cura, Pavese reagisce a ogni canto, ogni riga, ogni immagine, ogni parola. Le sue lettere sono zeppe di suggerimenti, ritocchi, opinioni. Interviene con schiettezza, ma sempre in modo rispettoso, cordiale. Tra le proposte in un lungo elenco: «Insisterei per bellissima invece di eletta per bellezza che dà un inutile tono ‘sublime’»; «Meglio che uccisore d’uomini mi pare assassino»; «Del mare che io faccio marino». Di tanto in tanto condivide pienamente una scelta di Calzecchi Onesti; per quanto riguarda il classico epiteto omerico, il mare colore del vino, scrive: «Sono d’accordo per il mare cupo. Via il vino».