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Pavese e Calzecchi Onesti fanno quello che fanno tutti gli scrittori al mondo, e chiunque si occupi di scrittura: cercano di trovare la parola giusta, di selezionare alla fine quella più azzeccata, ficcante. Si tratta di passare al setaccio, un processo estenuante, a volte esasperante. Chi scrive non può evitarlo. Il cuore del mestiere risiede qui.

Le lettere di Pavese svelano una conoscenza possente, intima della propria lingua. Come scrittrice miro a fare come lui, ma posso farlo solo in inglese. Non posso tuffarmi nell’italiano con la stessa profondità. Posso sperare di scrivere in modo corretto, optare per una parola alternativa. Ma non possiedo un vocabolario vissuto, stagionato fin dall’infanzia. Non posso scrutare l’italiano con la stessa precisione. Non posso valutare un testo italiano, nemmeno scritto da me, dalla stessa prospettiva.

Tuttavia, l’impulso di scovare la parola giusta resta irrefrenabile, per cui, perfino in italiano, ci provo. Controllo il dizionario dei sinonimi, sfoglio il taccuino. Infilo un nuovo vocabolo, appena letto la mattina sul giornale. Ma spesso i miei primi lettori scuotono la testa, dicendo semplicemente: «Non suona». Dicono che la parola che vorrei usare è considerata ormai datata, che appartiene a un registro o troppo basso o troppo raffinato, che suona o leziosa o troppo colloquiale (così ho imparato l’aggettivo aulico). Dicono che l’ordine delle parole non è autentico, che la punteggiatura non funziona. Non c’entra, necessariamente, la correttezza. Dicono che un italiano non si esprimerebbe così.

Devo ascoltare quei lettori, devo seguire il loro consiglio. Devo togliere la parola scorretta o sbagliata e cercarne un’altra. Non posso difendere la mia scelta: non si può contraddire un madrelingua. Devo accettare che in italiano sono parzialmente sorda e cieca, per cui temo di essere una scrittrice spuria.

Ho ormai un vocabolario ampio, ma rimane qualcosa di strampalato. Mi sento vestita in modo strambo, come se portassi una lunga gonna elegante di un’altra epoca, una maglietta sportiva, un cappello di paglia e un paio di ciabatte. Questo effetto sgraziato, questi toni scombinati potrebbero essere la conseguenza della distanza, fin dall’inizio, tra me e l’italiano: l’aver assorbito la lingua per anni da lontano, da varie fonti, prima di aver vissuto in Italia. Per due anni sono riuscita a imparare la lingua in modo agevole, quotidianamente. Ma ora che leggo in italiano, il mio lessico è anche plasmato da un amalgama di scrittori di varie epoche storiche che scrivono in diversi stili. Sui miei taccuini elenco le parole di Manganelli, Verga, Elena Ferrante, Leopardi, senza fare alcuna distinzione. Diceva Beckett che scrivere in francese gli permetteva di scrivere senza stile. Da un lato sono d’accordo: si potrebbe dire che la mia scrittura in italiano sia una specie di pane sciapo. Funziona, ma il solito sapore non c’è.

Dall’altro lato, credo che ci sia uno stile, almeno un carattere. La lingua mi sembra una cascata. Non mi serve ogni goccia, eppure continuo ad avere sete. Sospetto, dunque, che il problema non sia la mancanza di stile ma forse una sovrabbondanza dalla quale mi sento ancora travolta. Ciò che mi manca in italiano è una vista acuta, per cui non riesco a limare uno stile specifico. Per di più non riesco a coglierlo. Se mi capita di formulare una bella frase in italiano, non riesco a capire esattamente perché è bella.

Resto, in italiano, una scrittrice inconsapevole, consapevole solo di essere camuffata. In realtà mi sento una bambina che si intrufola nell’armadio della madre per mettersi le scarpe coi tacchi, un vestito da sera, gioielli preziosi, una pelliccia. Temo di essere colta sul fatto, di essere rimproverata, rimandata in camera mia. «Devi aspettare» direbbe mia madre. «Questa roba è troppo grande per te.» Ha ragione lei. Non riesco a camminare con disinvoltura nelle sue scarpe. La collana mi pesa, inciampo nell’orlo del vestito. Dentro la pelliccia, per quanto sia elegante, sudo.

Come la marea il mio lessico s’innalza e si abbassa, viene e se ne va. Le parole aggiunte ogni giorno sul taccuino sono labili. Impiego un’ora per scegliere quella giusta, ma poi, spesso, la dimentico. Ormai quando incontro una parola sconosciuta in italiano conosco già un paio di termini, sempre in italiano, per esprimere la stessa cosa. Per esempio, di recente ho imparato accantonare, conoscendo già rinviare e sospendere. Ho scoperto travalicare, conoscendo già oltrepassare e superare. Ho sottolineato tracotante, conoscendo già arrogante e prepotente. Poco tempo fa ho acquisito azzeccato e ficcante; prima avrei usato adatto, appropriato.

Faccio del mio meglio per colpire il bersaglio, ma quando prendo la mira, non si sa dove arriverà la freccia. Almeno cento volte mentre scrivevo i capitoli di questo libro mi sono sentita talmente demoralizzata, talmente affranta che avrei voluto smettere di farlo. In quei momenti tenebrosi la mia scrittura italiana non mi è sembrata altro che un’impresa folle, una salita troppo ripida. Se voglio continuare a scrivere in italiano devo resistere a quei momenti burrascosi in cui il cielo si scurisce, in cui mi dispero, in cui temo di non poterne più.

Invidio Pavese, la sua capacità di sondare l’italiano fino al fondo. Ma penso anch’io di aver fatto un sondaggio attraverso queste riflessioni. Indagando la mia scoperta della lingua, penso di aver fatto un’indagine su di me. Il verbo sondare vuol dire esplorare, esaminare. Vuol dire, letteralmente, misurare la profondità di qualcosa. Secondo il mio dizionario questo verbo significa «cercare di conoscere, di capire qualcosa, in particolare i pensieri e le intenzioni di altri». Implica distacco, incertezza; implica uno stato di immersione. Significa ricerca, metodica e accanita, di qualcosa che resta sempre fuori portata. Un verbo azzeccato che spiega alla perfezione questo mio progetto.

L’IMPALCATURA

Ho concepito e scritto questo libro in una biblioteca nel ghetto di Roma. Quando sono venuta in questa città per la prima volta, più di dieci anni fa, è stato il primo quartiere che ho scoperto. Resta il mio preferito. Non dimenticherò mai l’emozione di vedere il portico di Ottavia, a poca distanza dall’appartamento che avevamo preso in affitto per una settimana. Mi colpì talmente che dopo esser tornata a New York scrissi, in inglese, un racconto ambientato nel ghetto, in cui descrivevo i resti del portico: «Le colonne smangiate e circondate dalle impalcature, il frontone massiccio al quale mancavano porzioni significative». All’epoca questo complesso antico, danneggiato, frammentato, rifatto varie volte, ancora in piedi, per me incarnava il senso della città. Oggi mi dà la metafora con cui vorrei chiudere questa serie di pensieri.

Scrivo per sentirmi sola. Fin da ragazzina è stato un modo di ritirarmi, di ritrovarmi. Mi servono il silenzio e la solitudine. Quando scrivo in inglese do per scontato di poterlo fare senza aiuto. Qualcuno può darmi un suggerimento, può indicare qualche problema. Ma per quanto riguarda il percorso linguistico, sono autosufficiente.

In italiano ho seguito un altro sentiero. Ero da sola nella biblioteca, è vero. Mentre scrivevo non c’era nessuno con me. Il mio unico compagno era un volume delle poesie e delle lettere di Emily Dickinson, la solitaria poetessa americana che trascorse tutta la vita nel Massachusetts, non lontano da dove sono cresciuta io. Un bel libro, rosso, tradotto in italiano, che aveva attirato per caso la mia attenzione tra tutti gli altri sugli scaffali della biblioteca. Spesso, prima di iniziare un nuovo pezzo, leggevo un poema o una delle lettere di Dickinson. È diventato, per me, una specie di rituale. Un giorno ho trovato queste righe: «Sento che sto navigando sull’orlo di uno spaventoso abisso, a cui non posso sfuggire e nel quale temo che la mia fragile barchetta presto scivoli se non ricevo aiuto dall’alto». Sono rimasta folgorata. Scrivendo questi capitoli, mi sono sentita esattamente così.