Scrivo per sentirmi sola. Fin da ragazzina è stato un modo di ritirarmi, di ritrovarmi. Mi servono il silenzio e la solitudine. Quando scrivo in inglese do per scontato di poterlo fare senza aiuto. Qualcuno può darmi un suggerimento, può indicare qualche problema. Ma per quanto riguarda il percorso linguistico, sono autosufficiente.
In italiano ho seguito un altro sentiero. Ero da sola nella biblioteca, è vero. Mentre scrivevo non c’era nessuno con me. Il mio unico compagno era un volume delle poesie e delle lettere di Emily Dickinson, la solitaria poetessa americana che trascorse tutta la vita nel Massachusetts, non lontano da dove sono cresciuta io. Un bel libro, rosso, tradotto in italiano, che aveva attirato per caso la mia attenzione tra tutti gli altri sugli scaffali della biblioteca. Spesso, prima di iniziare un nuovo pezzo, leggevo un poema o una delle lettere di Dickinson. È diventato, per me, una specie di rituale. Un giorno ho trovato queste righe: «Sento che sto navigando sull’orlo di uno spaventoso abisso, a cui non posso sfuggire e nel quale temo che la mia fragile barchetta presto scivoli se non ricevo aiuto dall’alto». Sono rimasta folgorata. Scrivendo questi capitoli, mi sono sentita esattamente così.
Li ho scritti in ordine, uno dopo l’altro, come se fossero i compiti per le mie lezioni d’italiano. Per sei mesi, più o meno ogni settimana sono riuscita ad abbozzarne uno. Non ho mai affrontato un progetto di scrittura in maniera così metodica. Ho inviato la prima stesura al mio insegnante, il mio primo lettore. Durante le lezioni ci abbiamo lavorato insieme. È stato un processo rigoroso, nuovo sia per me sia per lui. Lui ha visto tutti gli errori grossolani, tutti i peccati mortali: «gli penso» invece di «ci penso», «sono chiesta» invece di «mi viene chiesto». All’inizio mi faceva una serie di appunti abbondanti, puntigliosi («Attenzione a non utilizzare troppi verbi sostantivati»; «Mica è troppo colloquiale»; «Lasciarsi alle spalle. Lasciare non è sbagliato ma è meno autentico»). Per il primo racconto, che era lungo meno di cinquecento parole, ha fatto trentadue note in fondo alla pagina. Mi ha dato parole in alternativa, mi ha corretto (e rimproverato) quando sbagliavo per l’ennesima volta un congiuntivo, un gerundio, un periodo ipotetico. Mi ha spiegato come l’inglese mi braccasse. Ha indicato, sempre con pazienza, quante volte una preposizione sbagliata rompeva le scatole.
Dopo aver preparato un testo più o meno pulito con l’insegnante, ho fatto vedere ogni pezzo a due lettrici, entrambe scrittrici. Loro mi hanno suggerito delle modifiche più sottili. Con loro ho analizzato il testo dal punto di vista tematico piuttosto che grammaticale, in modo da capire davvero quello che facevo. Mi hanno spiegato quale impatto avevano su di loro questi miei pensieri. Mi hanno sempre detto la cosa più importante che avevo bisogno di sentire: vai avanti.
La terza tappa, l’ultima, sono stati gli editor di «Internazionale», la rivista in cui questi testi sono comparsi per la prima volta, che mi hanno dato un’opportunità impagabile. Hanno capito il mio desiderio di esprimermi in una nuova lingua, hanno rispettato la stranezza del mio italiano, hanno accettato la natura, sperimentale, un po’ claudicante, della scrittura. Lavorando insieme, abbiamo fatto gli ultimi ritocchi prima della pubblicazione, mettendo alla prova ogni frase, ogni parola. Grazie a loro sono riuscita a fare questo salto linguistico, creativo. Sono riuscita a raggiungere nuovi lettori italiani e, infine, a raggiungere una nuova parte di me.
Il giorno in cui è uscito il primo articolo, pur avendo un carattere abbastanza schivo, mi sono talmente emozionata che avrei voluto annunciare la notizia in mezzo alla piazza. Mi sono sentita così solo quando è stato pubblicato il mio primo racconto in inglese, più di vent’anni fa. Credevo, all’epoca, che sarei riuscita a provare quella gioia solo una volta nella vita.
Tutti i miei primi lettori mi hanno fornito uno specchio critico. Come ho detto prima, non sono capace di vedere con chiarezza ciò che scrivo in italiano. Ma più che altro questi lettori mi hanno sostenuta, come le impalcature sostengono tantissimi edifici a Roma, sia in rovina sia in costruzione.
Benché questo progetto sia stato una specie di collaborazione, scrivere in italiano mi lascia più isolata rispetto all’inglese. Ora mi sento estranea agli scrittori anglofoni con cui sono linguisticamente imparentata e sono per forza diversa da quelli italiani. Quando penso agli autori che hanno deciso, per vari motivi, di lavorare in una lingua straniera, non mi sento neanche un membro legittimo di quel gruppo. Beckett ha vissuto in Francia per decenni prima di scrivere in francese, Nabokov aveva imparato l’inglese da ragazzo, Conrad ha trascorso parecchio tempo sul mare, assorbendo l’inglese, prima di diventare uno scrittore anglofono anziché polacco. Quello che faccio io — osare scrivere in italiano dopo aver vissuto appena un anno in Italia — è diverso, fuori del comune, per cui provo una solitudine ancora più forte, quasi un’altra dimensione della solitudine. Mi chiedo se ci siano altri come me.
Un’impalcatura non è considerata una bella cosa. Costituisce, di solito, una specie di obbrobrio. Interferisce, imbruttisce. Idealmente non dovrebbe esserci. Se mi capita di dover passare sotto un’impalcatura, preferisco attraversare la strada. Temo sempre che stia per stramazzare.
Nel caso del portico di Ottavia, però, faccio un’eccezione. Non ho mai visto il portico senza impalcatura, per cui ormai la considero permanente, naturale. Nonostante sia un’ostruzione, l’impalcatura aggiunge alla rovina un attributo commovente. Mi sembra un miracolo vedere le colonne, il frontone, restaurato e dedicato in età augustea. Mi stupisco che si possa camminare tranquillamente sotto questo complesso, a pezzi eppure ancora presente. Racconta il passare del tempo ma anche il suo azzeramento.
Quando la mia scrittura italiana viene pubblicata, l’impalcatura scompare. A parte certe parole, certe scelte che tradiscono il fatto che l’italiano non sia la mia lingua, non si vede ciò che mi puntella, che mi protegge. Ciò che nasconde la parte vulnerabile resta invisibile. Ma quest’assenza non è altro che un’illusione. Io sono consapevole sempre della mia impalcatura, senza la quale sarei crollata anch’io.
A differenza del portico di Ottavia la mia scrittura italiana, appena iniziata, non è ancora logora. Dubito che durerà per secoli. Ma l’impalcatura serve per lo stesso motivo: rafforzare un lavoro che potrebbe cadere. Non la trovo brutta. Forse un giorno non ce ne sarà più bisogno. Se riuscissi a sbarazzarmene e scrivere per conto mio, mi sentirei più indipendente. Ma la mia impalcatura, un gruppo di cari amici che mi hanno guidata e circondata, a cui lego una delle esperienze più straordinarie della mia vita, mi mancherà.
PENOMBRA
Si sveglia disorientato, agitato da un sogno, accanto a sua moglie.
Anche nel sogno era accanto alla moglie. Sempre disorientato, agitato. Stavano guidando in campagna lungo una strada fiancheggiata da alberi e cespugli. C’era una luce indeterminata. Poteva essere o l’alba o il tramonto. Il cielo era pallido ma aveva una punta di rosa.
Il paesaggio evocava un vecchio quadro dipinto a olio: una scena rurale, spopolata, tenebrosa. Le chiome degli alberi sembravano una massa di nuvole che ingombravano il cielo, e i tronchi gettavano ombre sottili che li accompagnavano lungo un lato della strada.
La moglie era al volante. E mentre lei guidava lui era pieno di ansia, perché alla macchina, benché funzionasse, mancava tutta la carrozzeria. A parte il volante, i pedali, il cambio, non c’era nulla tra loro e la strada.
La moglie guidava come se non se ne fosse accorta, oppure come se non ci fosse nessun pericolo, mentre l’assenza dell’involucro dell’auto e la prossimità della strada lo sgomentavano.