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Gridò alla moglie di fermarsi. Ma come al solito nei sogni non aveva una voce. Erano andati avanti così, senza parlare, senza problemi, sempre lungo le ombre sottili degli alberi. Non c’era nessun ostacolo lungo la strada. Non avevano avuto nessun incidente, benché lui se lo aspettasse. Forse il dettaglio più inquietante del sogno era quello.

Ora è notte fonda e sua moglie dorme, ma per lui, appena tornato da un paio di mesi all’estero, è già mattino. Ha l’impulso di alzarsi e di iniziare la giornata. Appartiene ormai al ritmo quotidiano di un altro Paese dove il cielo è già azzurro, dove lui non c’è più.

Non riesce a dormire, eppure l’effetto del sogno lo stordisce. Teme che ci siano altre assenze, altre cose venute a mancare. Vuole controllare che ci sia ancora il pavimento sotto il letto, che la stanza abbia ancora quattro pareti.

Sua moglie rimane lì, alla sua sinistra, così come nel sogno. Vede le sue braccia nude, i suoi lineamenti illuminati dalla luna piena.

Anche la tavola, a cena, terminata poche ore fa, era stata piena. La moglie aveva organizzato una grande cena per festeggiare il suo rientro. Lui non aveva appetito, lo schiamazzo allegro attorno al tavolo gli dava fastidio. A quell’ora, dopo aver percorso una grande distanza, voleva solo andare a letto.

Invece era rimasto seduto al tavolo, raccontando agli ospiti, tutti loro cari amici, delle sue esperienze all’estero: il Paese in cui era stato, l’appartamento che aveva affittato, l’aspetto della città. Parlava della gente, e del loro carattere. Spiegava il lavoro che aveva fatto. A un certo punto, per soddisfare la curiosità di uno degli ospiti, aveva detto un paio di cose nella lingua straniera che aveva imparato, sentendosi, in quel momento, forestiero in casa propria.

Entra in cucina. Non c’è bisogno di accendere la luce, basta il bagliore della luna. Vede la scia spettacolare della cena: tutti i piatti e bicchieri sporchi, pentole e padelle unte, un vassoio gigantesco di ceramica in cui la moglie aveva servito un piatto squisito. La sera precedente avevano lasciato tutto così prima di andare a letto, lui perché era stanco, lei perché aveva bevuto un po’ troppo.

Comincia a lavare le pentole, a grattare via gli avanzi ormai incrostati sui piatti, a risciacquare le posate. Riempie e accende la lavastoviglie. Mette tutto in ordine, toglie ogni traccia del festeggiamento.

Nella cucina ripulita si prepara il caffè, cerca del pane. Ha voglia di mangiarne una fetta: all’estero, nella cucina del suo appartamento, non c’era un tostapane, faceva una colazione diversa. Trova un pacchetto pieno di pane, infila una fetta nel tostapane. Ma non entra, c’è qualche ostacolo dentro la fessura. Poi vede che c’è già un’altra fetta lì dentro, secca, dura, fredda.

A chi appartiene questa fetta dimenticata, ancora intatta? La moglie non l’avrebbe lasciata lì. Ha smesso di mangiare questo tipo di pane, dice che ha un’intolleranza. Gli viene un sospetto, sbucato dal nulla, per cui avverte uno spavento ancora più agghiacciante che nel sogno. Si chiede se sua moglie abbia un amante, se la fetta trascurata appartenga a lui.

Vede sua moglie e un altro uomo in cucina, stanno facendo colazione la mattina precedente. Sarebbe stata la loro ultima colazione spensierata prima del suo rientro. Vede la moglie in vestaglia, serena, spettinata. Sta spalmando della marmellata su una fetta di pane per l’amante. Poi la scena si scioglie, il dubbio svanisce. Sa che non è cambiato nulla, e che la fetta appartiene a lui, così come la casa, la moglie che conosce da più di vent’anni. L’aveva preparata e poi aveva dimenticato di mangiarla quel mattino di due mesi fa, quando stava per partire. Succedeva spesso, è un uomo distratto.

Versa il caffè, spalma la nuova fetta tostata con il burro, poi con la marmellata. Fa colazione nel silenzio notturno, assoluto, finché non sente in lontananza, per qualche secondo, il rumore di una macchina che procede velocemente lungo la strada.

Non vuole raccontare il sogno a sua moglie, se ne vergogna. Il senso della strada tenebrosa, la macchina assente, le ombre sempre a un lato: gli pare troppo ovvio, perfino trasparente.

Torna a letto accanto a lei. La tiene tra le braccia anche se lei non se ne accorge. Poi pensa a un altro viaggio in macchina fatto molti anni prima: il loro viaggio di nozze, un mese intero trascorso sulla strada in un altro Paese straniero. Guidavano insieme ogni giorno, per quasi tutto il giorno, per girare la campagna di quel Paese. Si ricorda ancora la strada sconfinata, l’ebbrezza della velocità. Quando era giovane, sprovveduto, ancora in attesa di tutto, il percorso non gli sembrava una voragine.

Ora si rende conto del senso più profondo del sogno: lo stupore di aver trascorso una vita accanto alla stessa persona. Senza fermarsi, senza ostacoli, nonostante le ombre sempre a un lato, il pericolo. Ora vede quel primo viaggio, il loro principio, in penombra; preferisce la lucida verità del sogno. Solo che all’epoca, qualunque sogno fosse, l’avrebbe condiviso con lei.

POSTFAZIONE

Negli ultimi quindici anni della sua vita, dal 1939 in poi, Henri Matisse si allontanò dalla pittura tradizionale e sviluppò una nuova tecnica artistica. Si trattava di tagliare fogli di carta già dipinti a guazzo, in vari colori. Una volta tagliati, Matisse combinava e sistemava i diversi componenti per ricavare un’immagine. Fissava i pezzi prima con spilli, poi con colla, spesso direttamente sulla parete. Smise di usare il cavalletto, la tela. Il suo strumento principale diventò un paio di forbici anziché il pennello.

Il metodo, una sorta di sintesi tra collage e mosaico, nacque da certe limitazioni. La vista del pittore settantenne, allora abbastanza deteriorata, fu un fattore. Inoltre, dopo una malattia grave nel 1941 usava la sedia a rotelle, ed era costretto a stare spesso a letto. Un giorno fu ispirato a creare un “giardino” dentro casa, un miscuglio esuberante di foglie e frutta attaccati ai muri del suo studio. Fu un processo collettivo: Matisse faceva dipingere tutta la carta ai suoi assistenti. Non era più capace di realizzare le sue opere da solo.

Il risultato fu una forma distinta, uno stile ibrido, decisamente più astratto rispetto alla sua pittura. Continuava a giocare con gli stessi elementi che raffigurava da sempre: la natura, la figura umana. Ma saltò fuori, di colpo, un’altra energia, un linguaggio diverso.

Le immagini su carta erano più semplificate, grezze rispetto a quelle su tela, ma richiedevano una lavorazione meticolosa, complessa. Si riconosce la mano e lo sguardo del pittore, ma sono cambiati. Si segue il filo rosso tra il nuovo metodo e i quadri precedenti, e ci si accorge anche di un punto di svolta, una mossa radicale.

Per Matisse, tagliare non è solo una nuova tecnica ma un sistema per pensare ed espandere le possibilità di forma, colore e composizione. Un ripensamento della sua strategia artistica. Disse il pittore: «Le condizioni di questo viaggio sono al cento percento diverse». Paragonava questo metodo — che chiamava «dipingere con le forbici» — all’esperienza del volo.

Il nuovo approccio di Matisse fu accolto, all’inizio, con diffidenza, con scetticismo. Un critico lo trovò, nella migliore delle ipotesi, «una distrazione piacevole». Anche l’artista era incerto. Tagliare, per Matisse, cominciò come un esercizio, un esperimento. Senza sapere che cosa significasse, seguiva una strada ignota, esplorando su scala sempre più vasta. Fu per lui, nonostante le difficoltà, un periodo di lavoro intenso, fecondo. Man mano abbracciò totalmente questo metodo; restò, fino alla sua morte, un passo definitivo.