Lo scorso anno, mentre ultimavo la scrittura di In altre parole, ho visitato, a Londra, una mostra dedicata a quest’ultima tappa creativa di Matisse. Ho incontrato una serie di immagini liriche, ardite, di grande respiro. Ho notato un dialogo sorprendente tra spazio negativo e positivo. Ho capito come lo spazio bianco, come il silenzio, possa avere anche un significato.
Sono rimasta colpita dall’effetto essenziale delle immagini su carta. Non c’è nulla di superfluo. Mettono in luce la cucitura, le spaccature. Essendo ridotte letteralmente a pezzi, comunicano una sorta di decostruzione, un atto di smantellamento quasi violento. Eppure sono armoniose, equilibrate. Esprimono un nuovo inizio. Ogni immagine, prima tagliata, poi ricostruita, suggerisce qualcosa di provvisorio, sospeso, vulnerabile. Evoca altre permutazioni, altre possibilità.
Percorrendo la mostra, ho riconosciuto un artista che ha sentito il bisogno, a un certo punto, di cambiare strada, e di esprimersi diversamente. Che ha provato l’impulso folle di abbandonare un tipo di visione, perfino una certa identità creativa, per un’altra. Ho pensato alla mia scrittura in italiano: un processo altrettanto macchinoso, un risultato altrettanto rudimentale rispetto al mio lavoro in inglese.
Il metodo di Matisse assomiglia un po’ a quello che faccio io. I pezzi di carta sono le parole, già definite da altri, selezionate e sistemate da me. Cerco di rifondare, da uno scompiglio di elementi, qualcosa di coerente.
Scrivere in una lingua diversa rappresenta un atto di smantellamento, un nuovo inizio.
In altre parole è il mio primo libro scritto direttamente in italiano. È nato nell’autunno 2012, in modo privato, frammentato, spontaneo. Mi ero appena trasferita a Roma dopo aver trascorso quasi tutta la vita in America. Parlavo l’italiano ma la mia conoscenza restava elementare. Volevo impadronirmene. Tenevo un taccuino in cui prendevo appunti in italiano, sull’italiano. Buttavo giù nuove parole, regole grammaticali da imparare, frasi che mi colpivano. Scrivevo tutto questo in maniera consueta, partendo dall’inizio del taccuino, riempiendo le pagine una dietro l’altra.
Al contempo, sull’ultima pagina, procedendo a ritroso, ho cominciato a prendere note di un altro tipo, non sugli aspetti tecnici della lingua, ma sull’esperienza di tuffarmi nell’italiano in profondità. Erano appunti presi di sfuggita, una serie di commenti accatastati in fondo al taccuino, che quasi nascondevo a me stessa.
Pian piano gli appunti sono diventati frasi, e le frasi paragrafi. Era una sorta di diario, scritto di getto. Tenevo già un altro diario italiano in cui descrivevo la mia vita quotidiana, le mie impressioni su Roma. Qui, invece, descrivevo soltanto le emozioni che lo slancio linguistico suscitava in me.
Entro la primavera avevo esaurito il taccuino. La testa si era incontrata con la coda. Ho comprato un nuovo taccuino, ho messo via il primo dentro un cassetto. Continuavo a studiare l’italiano, ma ho smesso di annotare i miei pensieri a ritroso. L’autunno successivo ho ripreso il primo taccuino. Ho trovato un’accozzaglia di pensieri, quasi sessanta pagine disordinate. Allora avevo scritto poche cose in italiano e le avevo fatte vedere a un paio di persone. Ma non avevo voglia di condividere il contenuto del taccuino con nessuno.
Ecco alcuni appunti sull’ultima pagina, che era anche la prima:
«lingua come una marea, ora un’inondazione, ora bassa, inaccessibile»
«leggendo con un vocabolario»
«fallimento»
«qualcosa che rimane sempre fuori da me»
Rileggendo gli appunti, ho intravisto quasi subito un filo, un ragionamento, forse persino un percorso narrativo. Un giorno, per capire meglio il loro significato, ho preso appunti sugli appunti precedenti. Ho visto che c’erano spunti da sviluppare, da sviscerare. Mi sono venuti in mente capitoli, titoli. Ho intuito un’andatura, una struttura. In poco tempo sapevo che il contenuto del primo taccuino sarebbe diventato questo libro.
Avevo bisogno di più spazio. Ho comprato un quaderno. Ogni settimana, grosso modo, da novembre fino a maggio, ho lavorato su uno spunto diverso, fino a quando non sono arrivata all’ultimo. Non ero mai riuscita a scrivere nulla in questa maniera celere, lungimirante, conoscendo già quasi ogni passo davanti a me, sapendo già dove il sentiero mi avrebbe portato. Nonostante la fatica è stato un processo di scrittura fluido, immediato. Era tutto straordinariamente chiaro, tranne l’elemento centrale, tranne l’argomento stesso: la lingua.
Come definire questo libro? È il quinto che scrivo. È anche un esordio. È un punto di arrivo e di partenza. È fondato su una mancanza, un’assenza. A partire dal titolo, implica un rifiuto. Questa volta non accetto le parole che conoscevo già, con cui avrei dovuto scrivere. Ne cerco altre.
Credo che sia un libro titubante e allo stesso tempo impavido. Un testo sia privato sia pubblico. Da un lato scaturisce dagli altri. I temi, fino in fondo, restano invariati: l’identità, lo straniamento, l’appartenenza. Ma l’involucro, il contenuto, il corpo e l’anima sono trasfigurati.
È un libro di viaggio, direi più interiore che geografico. Racconta uno sradicamento, uno stato di smarrimento, una scoperta. Racconta un viaggio a volte emozionante, a volte estenuante. Un viaggio assurdo, visto che la viaggiatrice non raggiunge mai il traguardo.
È un libro di memoria, pieno di metafore. Racconta una ricerca, una conquista, una sconfitta continua. Un’infanzia e una maturità, un’evoluzione, forse una rivoluzione. È un libro d’amore, di sofferenza. Racconta una nuova indipendenza insieme a una nuova dipendenza. Una collaborazione, e anche uno stato di solitudine.
A differenza degli altri, questo libro è il primo radicato nelle mie esperienze vere e vissute. Tranne due racconti, non è un’opera di fantasia. Lo ritengo una sorta di autobiografia linguistica, un autoritratto. Mi pare giusto citare le parole di Natalia Ginzburg che, nell’avvertenza di Lessico famigliare, diceva, «Non ho inventato niente».
Eppure, da un altro punto di vista, ho inventato tutto. Scrivere in una lingua diversa significa partire da zero. Viene da un vuoto, per cui ogni frase sembra sbucata dal nulla. Lo sforzo di rendere mia la lingua, di possederla, assomiglia molto a un processo creativo, misterioso, illogico. Ma il possesso non è autentico, è una sorta di finzione anche quello. La lingua è vera, ma la maniera in cui la assorbo e utilizzo sembra finta. Un lessico cercato, acquisito, resta per sempre anomalo, come se fosse artefatto, anche se non lo è.
Nell’imparare l’italiano ho imparato, di nuovo, a scrivere. Ho dovuto adottare un approccio differente. Ad ogni passo la lingua mi fronteggiava, mi costringeva. Allo stesso tempo mi ha permesso di ribellarmi, di andare oltre. Cito di nuovo un commento di Natalia Ginzburg su Lessico famigliare:
«Non so se sia il migliore dei miei libri, ma certo è il solo libro che io abbia scritto in uno stato di assoluta libertà».
Credo che il mio nuovo linguaggio, più limitato, più acerbo, mi dia uno sguardo più esteso, più maturo. Ecco la ragione per cui continuo, per il momento, a scrivere in italiano. Nel libro, parlo abbastanza del rapporto paradossale tra libertà e limiti. Non voglio ripetermi qui. Preferisco approfondire l’interconnessione tra la realtà e l’invenzione, e chiarire la questione dell’autobiografia, una questione che incombe da molti anni su di me.
Scrivevo, all’inizio, per occultarmi. Volevo tenermi lontana dalla mia scrittura, ritirarmi sullo sfondo. Preferivo celarmi tra le righe, una presenza travestita, trasversale.
Sono diventata una scrittrice in America, ma ho ambientato i miei primi racconti a Calcutta, una città in cui non ho mai vissuto, lontanissimo dal Paese in cui sono cresciuta, che conoscevo molto meglio. Perché? Perché avevo bisogno del distacco tra me e lo spazio creativo.