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Credevo, quando ho cominciato a scrivere, che fosse più virtuoso parlare degli altri. Temevo che la materia autobiografica fosse di minor valore creativo, perfino una forma di pigrizia da parte mia. Temevo che fosse egocentrico raccontare le proprie esperienze.

In questo libro io sono, per la prima volta, la protagonista. Non c’è nemmeno un pizzico di un altro. Appaio sulle pagine in prima persona, e parlo francamente di me stessa. Un po’ come la serie di Nudi Blu di Matisse, figure femminili tagliate, raggruppate, mi sento spoglia in questo libro, appiccicata ad una nuova lingua, disgregata.

Da molti anni non leggo ciò che scrivono su di me. So, però, che sono considerata da certi lettori una scrittrice autobiografica. Se spiego che non lo sono non ci credono, insistono. Dicono che il fatto che io sia di origine indiana, così come la gran parte dei miei personaggi, rende la mia opera palesemente autobiografica. Oppure pensano che qualsiasi racconto in prima persona debba essere vero.

Per me un testo autobiografico è quello plasmato dalle proprie esperienze, che ha poca distanza tra la vita dello scrittore e le vicende del libro. Ogni scrittore tende a descrivere il mondo, la gente che conosce. Ma un’opera autobiografica è un passo in più. Alberto Moravia era di Roma, per cui ha ambientato tanti suoi racconti e romanzi a Roma. Era romano, così come molti dei suoi personaggi. Significa perciò che ogni suo racconto, ogni suo romanzo, sia autobiografico? Penso proprio di no.

Ho trascorso più di un anno a promuovere il mio ultimo romanzo, La moglie. Non condivido le esperienze dei personaggi in quel romanzo. Quello che succede loro non mi è mai successo. Conosco i luoghi principali del libro, e la trama è basata su un episodio vero di cui però non ho alcun ricordo o impressione. La realtà mi ha fornito qualche seme. Ho immaginato tutto il resto.

Più di una volta mi sono trovata davanti a un giornalista, un critico che sostiene che io abbia scritto un romanzo autobiografico. E ogni volta mi ha colpito, e mi ha anche innervosito, che un romanzo la cui trama, i cui personaggi ho completamente inventato sia considerato tale.

Non sta a me valutare i miei libri. Vorrei semplicemente distinguere tra un romanzo realistico, ricavato dalla conoscenza, dalla curiosità da parte dell’autore, e uno autobiografico.

In altre parole è diverso. Quasi tutto ciò che contiene mi è accaduto. Ho già spiegato che è iniziato come una sorta di diario, un testo personale. Resta il mio libro più intimo ma anche il più aperto.

Perfino il mio primo tentativo di narrativa in italiano, Lo scambio, è autobiografico, non posso negarlo. È un racconto in terza persona, ma la protagonista, appena modificata, sono io. Sono andata io quel pomeriggio piovoso in quell’appartamento. Ho visto e osservato tutto quello che descrivo. Ho perso un golfino nero, ho reagito male, come la protagonista. Sono rimasta stranita, irrequieta, come lei. Qualche mese dopo ho trasformato l’esperienza cruda in un racconto. Penombra, scritto quasi due anni più tardi, è una storia inventata ma ha una base sempre autobiografica: il sogno del protagonista che apre il racconto viene da me.

In passato pensavo che fantasticare anziché attingere direttamente dalla realtà mi avrebbe dato più autonomia creativa. Preferivo manipolare la verità, ma volevo anche rappresentarla fedelmente, autenticamente. Ci tenevo molto, da scrittrice, alla verosimiglianza. Dopo aver scritto questo libro mi sono ricreduta.

Inventare potrebbe essere anche una trappola. Un personaggio fabbricato dal nulla dovrebbe sembrare una persona vera, ecco la sfida. È stata una sfida, soprattutto in La moglie, rappresentare un posto reale in cui non ho mai vissuto, ed evocare un’epoca storica che non conoscevo. Ho fatto molte ricerche per rendere plausibile quel mondo, quei tempi. Dal mio primo libro richiamavo Calcutta, la città di origine dei miei genitori. Dato che era, per loro, un luogo lontanissimo, quasi scomparso, cercavo un modo, attraverso la scrittura, di colmare la distanza, e di renderlo presente.

Oggi non mi sento più in dovere di restituire un Paese perduto ai miei genitori. Mi ci è voluto molto tempo per accettare che il mio progetto di scrittura non dovesse assumere una tale responsabilità. In questo senso In altre parole è il primo libro che scrivo da adulta, ma dal punto di vista linguistico, anche da bambina.

Continuo, da scrittrice, a cercare la verità, ma non do più lo stesso peso alla verità fattuale. In italiano mi muovo verso l’astrazione. I luoghi sono imprecisati, i personaggi finora sono senza nome, senza un’identità culturale specifica. Il risultato credo sia una scrittura affrancata per certi versi dal mondo concreto. Ora costruisco un’ambientazione meno determinata. Ecco perché capisco Matisse, quando paragonava la sua nuova tecnica all’esperienza del volo. Scrivendo in italiano, non mi sento più con i piedi per terra.

Cosa mi ha spinto a prendere una nuova piega verso una scrittura sia più autobiografica sia più astratta? È una contraddizione in termini, mi rendo conto. Da dove deriva la prospettiva più personale, insieme alla tonalità più vaga? Sarà la lingua. In questo libro la lingua non è soltanto lo strumento ma anche il soggetto. L’italiano resta la maschera, il filtro, lo sbocco, il mezzo. Il distacco senza il quale non riesco a creare niente. Ed è questo nuovo distacco che mi aiuta a mostrare il mio volto.

Ho adesso e avrò probabilmente per sempre un atteggiamento ambivalente verso questo libro. Da un lato ne sono fiera. Ho viaggiato molto per arrivare qui. Ho guadagnato ogni parola, non c’è nulla di tramandato. Tutto è nato dalla mia determinazione. È stata una procedura rischiosa. Mi sembra un miracolo aver potuto concepire, abbozzare, preparare le pagine per la pubblicazione. Lo considero un libro autentico, perché è sincero, onesto.

D’altro canto temo che sia un libro falso. Ne resto poco sicura, un po’ imbarazzata. Benché abbia ormai una copertina, una rilegatura, una presenza fisica, temo che sia una frivolezza, anche una presunzione. Non so se continuare a scrivere in italiano sia la strada giusta. Il mio italiano resta un lavoro in corso, e io resto una forestiera. Sono venuta in Italia in parte per conoscere meglio i miei personaggi, i miei genitori. Non mi aspettavo di diventare una straniera anche in quanto scrittrice.

È interessante, ora che il libro sta per uscire, sentire certe reazioni. Quando dico che il mio nuovo libro è stato scritto in italiano, viene spesso visto, prevalentemente da altri scrittori, con sospetto, quasi con disapprovazione. Forse mi sono sbagliata; mi chiedo se sarà considerato uno scacco matto, oppure, nella migliore delle ipotesi, «una distrazione piacevole». Alcuni mi dicono che uno scrittore non deve mai abbandonare la lingua dominante per una conosciuta solo superficialmente. Dicono che lo svantaggio non serve né allo scrittore né al lettore. Quando ascolto questi pareri mi vergogno, e mi viene l’impulso di cancellare ogni parola.

È stato solo dopo aver scritto questo libro che ho scoperto Ágota Kristóf, un’autrice di origine ungherese che scrisse in francese. Forse è stato un bene non conoscere prima la sua voce, le sue opere, fare questo primo passo ignorando il suo esempio. Ho letto, innanzitutto, un suo breve testo autobiografico, L’analfabeta, in cui parla della sua formazione letteraria, e dell’esperienza di arrivare in Svizzera, a ventun anni, come profuga. Inizia a imparare il francese, un processo duro e totalizzante. Scrive:

È qui che comincia la mia lotta per conquistare questa lingua, una lotta accanita e lunga, che di certo durerà per tutta la mia vita. Parlo il francese da più di trent’anni, lo scrivo da vent’anni, ma ancora non lo conosco. Non riesco a parlarlo senza errori, e non so scriverlo che con l’aiuto di un dizionario da consultare di frequente.