Leggendo questo brano, sono rimasta insieme stupefatta e confortata. Potrebbero essere i miei sentimenti, le mie parole.
Poi ho letto, d’un fiato, la sua celebre trilogia di romanzi che comincia con Il grande quaderno, che l’autrice considerava un’opera autobiografica, e che io trovo un capolavoro assoluto. Sono rimasta ancora più ammaliata dalla sua scrittura lapidaria, depurata, icastica. L’effetto è sconvolgente, potente come un pugno allo stomaco. Pur leggendo la Kristóf in italiano percepisco, anche in traduzione, lo sforzo implicito nella sua scrittura. Intuisco la maschera linguistica nella quale lei, come me, si trova costretta e al tempo stesso libera. Conoscendo la sua opera, mi sento rinfrancata, meno sola. Credo di aver incontrato una guida, magari una compagna su questa strada.
Eppure, resta una differenza fondamentale tra me e lei. Ágota Kristóf è stata costretta ad abbandonare l’ungherese. Scrisse in francese perché voleva essere letta. «È diventato una necessità», spiega l’autrice. Rimpiangeva di non poter scrivere nella sua lingua madre, per cui ha sempre considerato il francese «la lingua nemica». Io, invece, scelgo volentieri di scrivere in italiano. Non sento la mancanza dell’inglese, nemmeno del controllo superiore che mi dà.
L’opera della Kristóf mette a fuoco il fatto che un romanzo autobiografico non sia sempre quello che sembra, e che il confine tra l’immaginazione e la realtà sia poco netto. Dice il protagonista di La terza menzogna, il terzo volume della trilogia: «Cerco di scrivere delle storie vere, ma, a un certo punto, la storia diventa insopportabile proprio per la sua verità e allora sono costretto a cambiarla».
Anche un romanzo tratto dalla realtà, fedele a essa, non è mai il vero, così come l’immagine nello specchio non è una persona in carne ed ossa. Resta, cioè, un’astrazione, per quanto realistica e aderente ai fatti. Nelle parole di Lalla Romano — un’altra autrice che, come la Kristóf, ha sempre giocato nei suoi romanzi con cose realmente accadute — «in un libro tutto è vero, niente è vero».
Tutto va riconsiderato, configurato di nuovo. La narrativa autobiografica, anche se ispirata dalla realtà, dalla memoria, richiede una selezione rigorosa, un taglio spietato. Si scrive con la penna ma alla fine, per dare la forma giusta, bisogna utilizzare, come Matisse, un bel paio di forbici.
Sto per concludere il mio viaggio. Quest’anno devo lasciare Roma e tornare in America. Non ne ho voglia. Vorrei che ci fosse un modo di restare in questo Paese, in questa lingua.
Ho già paura del distacco tra me e l’italiano. Allo stesso tempo mi rendo conto di un distacco formale, notevole, tra me e l’inglese, un idioma in cui da tre anni non leggo più. La decisione di leggere soltanto in italiano mi ha indotta a fare questo nuovo cammino creativo. La scrittura proviene dalla lettura. Ormai, nonostante il disagio, preferisco scrivere in italiano. Anche se resto per metà cieca, riesco a vedere certe cose più chiaramente. Mi sento più centrata anche se navigo alla deriva. Mi sento più a casa, nonostante la scomodità.
Questo libro mi porta a un bivio. Mi costringe a scegliere. Mi fa capire che tutto è rovesciato, capovolto. Mi chiede: come procedere?
Devo continuare su questa strada? Abbandonerò l’inglese definitivamente per l’italiano? O tornerò, una volta rientrata in America, all’inglese?
Come ci tornerei? So dai miei genitori che, una volta partiti, si è andati per sempre. Se cesso di scrivere in italiano, se riprendo a lavorare in inglese, mi aspetto di avvertire un altro tipo di smarrimento.
Non posso prevedere il futuro. Preferisco godermi questo momento, il lavoro appena compiuto. Malgrado i dubbi sono molto felice di aver realizzato e pubblicato un libro in italiano. Lavorando sulle bozze italiane per chiudere il testo, mi sono commossa. Si potrebbe dire che sia un libro autoctono, nato e cresciuto qui, anche se l’autrice non lo è.
Ora In altre parole sta per avere un’identità indipendente da me. I primi lettori saranno italiani; si troverà, all’inizio, nelle librerie italiane. Col tempo sarà tradotto, trasformato. L’anno prossimo sarà pubblicato in America, in un’edizione bilingue. Tuttavia avrà radici specifiche, localizzate, benché resti ibrido, un po’ fuori schema, un po’ come me.
Grazie a questo progetto di scrittura spero che un pezzo di me possa restare qui, ed è consolante, anche se mi auguro che ogni libro al mondo appartenga a tutti, oppure a nessuno, da nessuna parte.
— ROMA, DICEMBRE 2014
RINGRAZIAMENTI
Ogni libro mi sembra un traguardo irraggiungibile finché non è ultimato, ma questo più di ogni altro. Non ce l’avrei fatta senza l’appoggio e l’attenzione di: Sara Antonelli, Luigi Brioschi, Raffaella De Angelis, Angelo De Gennaro, Giovanni De Mauro, Michela Gallio, Francesca Marciano, Alberto Notarbartolo e Pierfrancesco Romano.
Un ringraziamento particolare a Gabriella Giandelli per le sue illustrazioni delle puntate su «Internazionale»; a Marco Delogu, la cui fotografia ha ispirato il racconto Penombra; e al Centro Studi Americani a Roma, luogo dell’anima.
NOTA SULL’AUTORE
Jhumpa Lahiri è autrice di quattro fortunati libri: L’interprete dei malanni, L’omonimo, Una nuova terra, e La moglie. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti: Premio Pulitzer, PEN/Hemingway Award, Frank O’Connor International Short Story Award, Premio Gregor Von Rezzori, il DSC Prize for South Asian Literature, una 2014 National Humanities Medal conferita dal presidente Barack Obama, e il Premio Internazionale Viareggio-Versilia, per In altre parole.
NOTA SUL TRADUTTORE
Ann Goldstein è editor al New Yorker. Ha tradotto, tra gli altri, Elena Ferrante, Pier Paolo Pasolini, Giacomo Leopardi, e Alessandro Baricco ed è la curatrice della traduzione inglese delle Opere complete di Primo Levi. Ha ricevuto il PEN Renato Poggioli Translation Award, una Guggenheim Fellowship, e riconoscimenti dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e dall’American Academy of Arts and Letters.