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Mi fissò come se per la prima volta udisse quelle parole e le trovasse sgradevoli.

— È impossibile che l’abbia detto, signor Dyson — mi rassicu­rò. — Dovete avere frainteso. Certo ero spaventato, e se ne sarà accorto. Ma non ricordo di avere parlato.

Dunque non ricordava e forse era vero. Però mi sembrava im­probabile. Forse preferiva non ricordare.

— Hai detto anche che non è stato un fulmine — dissi. — Cosa te lo fa supporre?

— Non ricordo di aver detto nemmeno questo, signor Dyson.

— Capisco. Allora, credi che sia stato un fulmine.

— Ma certo. Che altro potrebbe essere stato? Il cielo si era oscurato come se stesse per piovere. Capita spesso che lampeggi a ciel sereno, d’inverno. Solo uno schianto di tuono, e un fulmine abbagliante.

— Lo so — convenni. — Sembra che sia proprio sopra di noi, e fa tanto chiasso da svegliare un morto. Per un momento si ha l’impressione che la casa crolli, poi ci si ricorda che è di­cembre… è questo che hai pensato, anche se adesso non siamo in dicembre?

Speravo che non stesse all’erta e dicesse ancora qualcosa di ir­razionale. Ma non cadde nella trappola.

— Non esattamente. Ho creduto che un fulmine avesse colpito un albero giù nel cortile. Ma quando è entrato in classe ero trop­po spaventato per riuscire a pensare.

— Certo, Bobby. Possiamo ben dire che oggi è stata una gior­nata memorabile. Per un momento hai corso un gravissimo peri­colo. Immagino che te ne sia reso conto, e che non ti sia accorto di quello che dicevi. In preda a un grande spavento, la mente può giocare strani scherzi.

Cinque minuti dopo sedevo solo alla cattedra, e mi chiedevo se oltre a preoccuparmi per l’eccezionale intelligenza di Bobby do­vevo preoccuparmi anche delle sue reazioni emotive. L’avevo congedato senza insistere e senza che lui tentasse ulteriormente di convincermi che non ricordava quello che aveva detto.

Forse le mie preoccupazioni erano esagerate. Ma se Bobby, nonostante l’intelligenza, correva il pericolo di diventare strano o squilibrato, era mio obbligo, in qualità d’insegnante, di scoprire i sintomi del male.

Alcune volte la vita può diventare complicata e, in questo caso, i comportamenti delle persone sono di difficile interpretazione. Tutto questo mi dava da pensare, e coinvolgeva la mia sfera emotiva. E quando si ha un lavoro impegnativo e manca il tempo di meditare sui problemi seri e giungere a una conclusione in me­rito, si soffre di conseguenza.

4

Bobby Jackson

Avevo commesso due sbagli nello stesso giorno, ma se confron­tati con quello che avevo realizzato, non c’era da essere scon­tenti.

Il primo errore risaliva a sei mesi prima ma, quando il signor Dyson mi trattenne in classe per rivolgermi alcune domande a cui non era facile rispondere, assunse una nuova dimensione. L’erro­re iniziò allorché adottai un atteggiamento sbagliato nei riguardi del signor Dyson, all’inizio dell’anno scolastico. L’ambivalenza è sempre pericolosa e qualche volta può essere disastrosa. Io non avrei dovuto cercare di nascondere il mio Q.I. comportandomi come uno scolaro mediocre, senza lode e senza infamia. Ma, an­che possedendo un Q.I. elevato, questo può essere molto diffici­le, specie quando si deve ingannare un giorno dopo l’altro un in­segnante perspicace come il signor Dyson.

Non saprei dire esattamente perché sentivo di doverlo ingan­nare. Lo ammiravo e lo rispettavo e avrei dovuto capire che non era tipo capace di tradire la fiducia. Ma suppongo che la circospezione fosse talmente radicata in me che a volte non potevo fa­re a meno di comportarmi in modo sciocco. E il signor Dyson adesso può pensare che io abbia recitato con lui una specie di commedia delle congetture. Quando mi ha messo alle corte con le sue domande ho assunto un’aria seccata, e questo è stato senz’altro il culmine della mia follia.

Il mio secondo sbaglio avrebbe potuto essere ancora più grave. Quando il fulmine saettò in classe mi spaventai al punto da la­sciarmi sfuggire delle frasi senza senso che devono averlo indotto a indagare, sia pur furtivamente, se nella mia mente non alber­gassero per caso i germi della pazzia.

Allora ero sicuro, e lo sono anche ora, di essermi trovato in gravissimo pericolo di morte, e non solo per colpa di un fulmine capriccioso. Il rombo del tuono è stato udito per un vastissimo raggio e il cielo si è oscurato un po’. Ma questo cosa prova? Non era certo un normale temporale estivo. E se tutte le domande che avevo fatto in giro la settimana prima, e la visita in casa Martin, e le cinque volte che avevo deciso di seguire il signor Martin, se tutto ciò li avesse indotti a… Uccidermi con un fulmine che non è scaturito da una nube temporalesca ma è stato creato artificial­mente? Ho fatto di tutto per convincermi che non è possibile. Ma continuo a pensarci e se ci pensa anche il signor Dyson, dopo tut­to quello che avevo detto sui dischi volanti, che per me esistono, anche lui forse è in pericolo. Però non credo d’averlo convinto. Anzi, ne sono sicuro. Era turbato perché pensava che io non avessi il cervello a posto. L’ho capito da come m’ha guardato quando mi sono girato e sono uscito dall’aula.

Piantare il germe del sospetto nella sua mente era l’ultima cosa che avrei dovuto fare. Perciò ho negato di aver detto quelle paro­le che a lui devono esser sembrate completamente senza senso. Qualunque cosa pensasse di me, adesso non importava molto, purché stessi ben attento a non tradirmi una seconda volta. Lui ha detto che la paura può giocare strani scherzi alla mente e in­durre la gente a dire cose senza senso.

Due disgraziati errori… ma sul piatto della bilancia pesava molto di più quello che ero riuscito a ottenere. Non solo ero riu­scito a seguire non visto il signor Martin per cinque volte, ma ho scoperto il posto in cui lo si può reperire fra le dodici e la una di lunedì, mercoledì e venerdì.

Le abitudini metodiche degli “umani” devono essergli sembra­te molto importanti per dare di sé l’immagine che aveva deciso di dare perché, a quanto mi risulta, da due mesi, il lunedì, il merco­ledì, il venerdì, a mezzogiorno preciso si presenta al Caffè e Ta­vola Calda di Betsy Winstock.

Il locale si trova in Wilmot Street ed è il secondo del genere in città. Per caso conoscevo una delle cameriere e questo mi è stato di gran vantaggio. Non prevedevo difficoltà, infatti, nel rinnova­re un’amicizia che avevo trascurato per parecchio tempo.

Ero sicuro che la signorina Enslow mi avrebbe accolto cordial­mente con un bel sorriso, e le mie speranze non furono deluse. Non appena entrai nel locale e andai a sedermi davanti al banco che corre parallelo a una fila di otto tavoli con il ripiano di vetro accostati uno all’altro mi disse: — È un pezzo che non ti fai vede­re, Bobby. Ho sentito la tua mancanza.

Si protese sul banco, per stringermi la mano.

— Attenta, signorina Enslow, mi farà venire delle idee sba­gliate — dissi.

Sorrise arricciando il naso, convinta che io, da studente, avessi preso una cottarella per lei. Sapevo che non dimostravo un gior­no di più dei miei quattordici anni. Ma non ho mai conosciuto una cameriera di tavola calda che non riesca a far dimenticare, se vuole, l’età dei suoi ammiratori dagli otto agli ottant’anni.

Naturalmente non c’era niente di male in tutto questo, e dal momento che la vita in una città di mezza tacca diventa spesso e volentieri monotona, io provo sempre un senso di gratitudine quando una persoma attraente come la signorina Enslow aggiun­ge qualche anno alla mia vera età, anche se lo fa per scherzo.

Dieci minuti dopo posava davanti a me una fetta di torta di mele e mi versava una seconda tazza di caffè. — Lo vuoi mac­chiato e con due zollette di zucchero, vero, Bobby?

Io assentii, imbronciato. Stavolta il signor Martin non era arri­vato puntuale — era mezzogiorno e un quarto — e incominciavo a temere che avesse interrotto le sue abitudini perché si era accorto che io mi esponevo volontariamente al pericolo al solo scopo di vedere fino a che punto lui sarebbe arrivato. Una tavola calda al centro di Lakeview, in una splendida giornata di settembre, non era il posto più adatto per eseguire un secondo esperimento con tuoni e fulmini ed era dunque probabile che ci avesse pensato e avesse preferito aspettare un’occasione migliore.