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Non pensate che fossi coraggioso fino alla temerarietà. Ero an­dato lì, per provare a me stesso che i miei timori erano infondati e che il fulmine era stato un capriccioso fenomeno dovuto al tem­porale, e nient’altro. Speravo che il signor Martin non si fosse ac­corto che l’avevo seguito di nascosto per una settimana e avevo fatto un sacco di domande in giro. Per me era della massima im­portanza sapere se la mia visita in casa Oakham lo aveva indotto a credere che c’ero andato perché sospettavo di lui, e quindi do­vevo essere sorvegliato. Poteva anche darsi che la signora Martin non gli avesse fatto la mia descrizione e che lui non fosse in grado di riconoscere in me il ragazzetto sventato che si era dondolato sul cancello e aveva procurato senza motivo tanti fastidi a sua moglie. Se lei non aveva visto in me una minaccia non avrei do­vuto preoccuparmi, né di lei né di lui.

— Mi sembri diverso stamattina — disse la signorina Enslow, come se le avessi attaccato il mio malumore. — Dov’è andato a finire lo spirito irlandese che ti sprizzava da tutti i pori?

Sapeva benissimo che non ero irlandese, più di quanto non lo fosse lei ma, se ciò la divertiva, che diritto avevo di guastare il di­vertimento?

— Sarà perché cresco e divento più serio — dissi. — Però è strano… nessun altro se n’è accorto.

Lei mi guardò con aria pensosa. — È vero, Bobby. Hai sempre dimostrato più dei tuoi anni e preferisco parlare con te che… be’, che con chiunque altro.

— È perché tutt’e due sappiamo come va il mondo — dissi. — Pochi lo sanno.

— Continua a parlare, Bobby — disse lei. — È meraviglioso sentirti dire una cosa simile. Ammiro, più di tutti, quelli che san­no come va il mondo. Ma non credo che tu l’abbia detto in quel senso.

Veramente, non sapevo nemmeno io cosa avevo voluto dire. Ma parlare mi evitava di pensare e di preoccuparmi troppo, e quando lei mi chiese: — Che cosa sappiamo, io e te, Bobby, che gli altri non sanno? — decisi di darle corda.

— Non ho detto “nessuno” — le rammentai. — Ho detto “po­chi”. Noi due non siamo le sole persone in gamba di Lakeview. Però sappiamo sempre come comportarci. E a volte non è facile.

— Capisco cosa vuoi dire, Bobby — disse lei arricciando il na­so. — Ci vuole esperienza. Una volta non sapevo niente degli uo­mini. Ma dopo aver parlato con te…

— Non parlavo per scherzo — le dissi. — Tutti hanno dei se­greti che si sforzano di tenere nascosti. Ma se ti trovano simpa­tico e si fidano di te, qualche volta ti lasciano dare una sbirciatina, non senza averli prima messi nella luce migliore. Per arriva­re alla verità bisogna fare le somme da soli. Non ci sono altri si­stemi.

— Adesso mi fai paura — disse lei, scherzando. — Cosa sai di me, Bobby? Mi sono tradita spesso?

— Oh, la stupirebbe saperlo.

— Bene, dimmi. Ho il diritto di sapere la verità su me stessa.

— La sa… altrimenti non avrebbe tanta paura che io possa avere indovinato un segreto che nasconde a tutti fin da quando aveva… be’, la mia età. Non che ci sia niente di male — aggiunsi, per rassicurarla — però la induce a pensare di essere diversa da­gli altri e a nessuno piace essere così diverso.

— Non so di cosa stai parlando — disse lei. Ma dal rossore che le salì alle guance si capiva che mentiva.

— Io invece credo di sì — dissi. Rimescolai il caffè, perché tut­to lo zucchero si era depositato sul fondo, e le sorrisi al di sopra della tazza. — Fin da bambina ha sempre cercato di andare per la sua strada senza badare agli altri — continuai. — È sempre stata solo lei stessa. Se ne sta in disparte e si diverte a guardarsi, e sor­ride alle sciocchezze che fa la gente, ma sempre con indulgenza. Lei è lei e loro sono loro, e sa, nel suo intimo, che quanto le suc­cede non è né più né meno importante di quello che succede agli altri. Sa che non è possibile cambiare la gente o il mondo e ha de­ciso da un pezzo di non tentarci nemmeno. Se altri ci si provano, e qualche volta con successo, a lei non fa né caldo né freddo. Non c’è niente di male in questo, e sbaglia ritenendolo una colpa.

Capii di aver detto troppo. La signorina Enslow mi stava guar­dando come se per incanto fossi penetrato nel suo cervello e avessi potuto vedere l’intreccio di pensieri e di emozioni che si agitava nella sua mente.

A volte riesco a farlo — ma non così naturalmente — e non vado certo in giro a gridarlo ai quattro venti. Non avevo detto altro che la verità sul suo conto, ma adesso cominciava a sospettare di me. Era un’anima candida e gentile, e son certo che soffriva le pene dell’inferno quando doveva ammazzare una mosca; ce n’e­rano tre adesso, che ronzavano intorno al banco, e il proprietario si aspettava che lei le schiacciasse. Ma il solo fatto che il Caffè e Tavola Calda Betsy Winstock era, in ordine di popolarità, il se­condo del suo genere a Lakeview, significava che avevo piantato i semi del sospetto in un terreno pericoloso. Senza volere si sa­rebbe lasciata sfuggire qualcosa sul mio conto che poteva dan­neggiarmi, ogni volta che la conversazione fosse caduta su “quel ragazzino precoce, quel Bobby Jackson, sapete. Il figlio del ban­chiere”.

Per un momento lei continuò a fissarmi in silenzio come se avessi sciorinato sul banco una dozzina di medaglie vinte a scac­chi, e frugassi in tasca alla ricerca della pipa e di un foglietto di appunti su cui avevo scritto delle equazioni matematiche che avevo promesso di risolvere per la Commissione dell’Energia Ato­mica.

Per uno strano motivo che non sono mai stato capace di pene­trare a fondo, alla gente non piace di sentirsi dire la verità nuda e cruda sul proprio conto, anche quando è lusinghiera. Perciò non mi meravigliai quando disse: — Bobby, tu hai una testa troppo matura per la tua età. Vuoi un’altra tazza di caffè?

La mia età? Avrei voluto farle notare che solo un momento prima mi aveva praticamente fatto capire che per lei non avevo età.

Ma ormai l’avevo sbalordita anche troppo, e il male era fatto. Con quel “Vuoi un’altra tazza di caffè?” in realtà mi aveva detto: “Bobby, per favore, lascia perdere e non insistere con queste fol­lie. Io devo servire anche gli altri clienti”.

Mi girai a guardare e li contai: erano sette. E solo tre erano già serviti. Mi riuscì subito antipatico il tipaccio muscoloso in giacca di cuoio seduto in fondo al banco. La sua faccia dai lineamenti grossolani aveva una pelle che sembrava cuoio, e lui stava guar­dandomi come se il ritardo della signorina Enslow nel servirlo fosse dovuto a me… e in fin dei conti non aveva torto.

I clienti al banco erano tutti così impazienti che per poco non notai il signor Martin. Era seduto sull’ultimo sgabello, vicino al tipo in giaccone di cuoio, e teneva la faccia sepolta nel menu. Evidentemente era entrato e si era seduto dopo che io avevo guardato in giro per la terza volta. Mi convinsi che non si deve contare sulla puntualità di nessuno, tantomeno su quella del si­gnor Martin. Gli schemi di comportamento di creature che non sono umane sono imprevedibili e il fatto di non averci pensato prima mi sconvolse perché avevo commesso un altro imperdona­bile errore.

Lo scambio di battute con la signorina Enslow era stato abba­stanza innocente, ma perché avevo insistito fino a tradirmi in mo­do così plateale?

La osservai mentre prendeva l’ordinazione del signor Martin. Con mia sorpresa, lui mise da parte il menu e indicò la macchina del caffè. Se non voleva altro che un caffè perché aveva sprecato due minuti buoni a esaminare il menu? Non aveva trovato niente di suo gusto o gli bastava il caffè per nutrirsi e aveva letto il menu a mio solo beneficio?