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La signorina Enslow annuì, e andò a versargli una tazza di caffè bollente, per poi allontanarsi, dalla mia parte, a prendere altre ordinazioni.

Quello che accadde poi fu così sorprendentemente impensabi­le da sembrare fatto apposta, anche se non lo credo. Con mio grande stupore, il signor Martin di colpo perse, o fece finta di perdere, la sua calma olimpica, il suo assoluto controllo, e “per­mise” alla sua mano di tremare violentemente mentre portava la tazza alle labbra.

Ma la tazza non arrivò mai a destinazione, perché gli cadde schizzando di caffè bollente i calzoni del tizio in giacca di cuoio.

Esistono uomini così irascibili ai quali incidenti come quello possono provocare uno scoppio, un’esplosione di violenza indici­bile. Il gigantesco omaccione balzò in piedi bestemmiando, affer­rò il signor Martin per le spalle e lo sollevò di peso dallo sgabello.

Continuò a scuoterlo finché non lo mandò a sbattere con tutta la sua forza contro il juke-box sistemato contro la parete oppo­sta. Normalmente l’unica conseguenza sarebbe stato un gran ru­more di vetri rotti, seguito dalla caduta di un malconcio signor Martin. Invece accadde qualcosa di molto diverso.

Ci fu sì, un frastuono di vetri infranti, ma il signor Martin non crollò sul pavimento. Continuò ad arretrare barcollando con una lunga scheggia di vetro che gli sporgeva dal petto. L’afferrò cer­cando di strapparla via, piegato in due, e il suo assalitore arretrò a sua volta, con aria terrorizzata, mentre l’ultimo frammento di vetro cadeva con un tintinnio dal juke-box sfondato.

Era chiaro che l’omaccione non aveva voluto commettere in­tenzionalmente un gesto così terribile, e quando la signorina Enslow cominciò a strillare, girò sui tacchi, si precipitò verso la por­ta e scomparve.

Non dimenticherò mai l’espressione del signor Martin quando riuscì a svellere dal petto quella baionetta di vetro, che continuò poi a stringere in pugno. Aveva l’espressione di chi è terrorizzato perché non riesce a capire, e continuava a strofinare la mano li­bera avanti e indietro sul petto, finché non la fermò in un punto, come se volesse frenare un fiotto di sangue.

Tre uomini balzarono in piedi e corsero verso di lui, ma egli si raddrizzò bruscamente e fece cenno che non si avvicinassero.

— Sto bene — disse con voce sorprendentemente alta e calma. — Benissimo. Il vetro si è incastrato nel portafogli e mi ha appe­na sfiorato. Vi prego di non chiamare la polizia e di non far niente che dia pubblicità all’accaduto e lo faccia finire sui giornali. Sono sicuro che il proprietario del locale se ne avrebbe a male. Lo conosco bene…

Era una richiesta così strana e insolita che nessuno fu capace di ribattere. Tutti continuarono a fissarlo stupiti e increduli e non si mossero quando lui tornò a chinarsi per deporre per terra la baionetta di vetro e drizzarsi di nuovo.

Durante quella manovra aveva continuato a guardarmi. Men­tre poi si avviava alla porta si fermò una sola volta, per chinarsi sul banco a bisbigliare qualcosa alla signorina Enslow. Poi uscì, e lo vidi un momento, dalla vetrina, avviarsi sotto il sole con passo misurato, le spalle erette. E mi lasciò con la testa piena di dubbi.

5

Laura Hartley

Gli aspetti più toccanti e indicativi dell’esperienza umana sono spesso fuggevoli, cosicché la mente conscia li percepisce prima che svaniscano, come increspature provocate dal vento sul mare calmo, o come una foglia sospinta a spirale verso l’alto, che ben presto si perde nell’immensità del cielo.

Forse è per questo che sono diventata bibliotecaria… non solo perché fin dal giorno che incominciai a muovere i primi passi mi sentii irresistibilmente attratta dai libri, ma perché mi piace gui­dare gli altri verso quelle fuggevoli rivelazioni della bellezza e della saggezza che si trovano sovente fra le pagine di un grande libro così come si trovano nei boschi d’autunno o su un’abbaci­nante spiaggia quando le onde si frantumano in spuma.

Un’occhiata alla sala di lettura il sabato mattina, quando non c’è un posto libero e un terzo dei lettori sono ragazzi e ragazze al di sotto dei vent’anni, è una ricompensa sufficiente per una don­na che si avvia alla trentina e che, agli occhi di quei ragazzi, è quasi una vecchia zitella.

Sopra ogni cosa godevo nel guardare Bobby Jackson, l’unico ornamento veramente brillante di quello che, per me, era un gruppetto di ragazzi con cui non era facile ragionare e che talvol­ta mi facevano arrabbiare.

Di regola i ragazzi minori di quindici anni stanno di sopra, nel­la sala di lettura destinata appunto a loro. Ma già a dodici anni Bobby era riuscito a persuadermi a fare un’eccezione per lui.

Non mi sono mai pentita di avergli accordato quel privilegio temporaneo — avrei potuto anche stampigliare “permanente” sul­la sua tessera, perché ambedue sapevamo che non gli avrei mai revocato il permesso — in quanto la luce che si accendeva nei suoi occhi allorché trovava qualcosa di nuovo o di meraviglioso nelle pagine di un libro, mi dava la sensazione di stringere fra le mani una pepita d’oro che avevamo scavato insieme.

Mi accorgevo sempre quando aveva uno di quegli improvvisi barlumi di verità o di bellezza che si aprivano e si chiudevano in un attimo, e l’eccitante eventualità che tutto il suo avvenire potesse essere influenzato da qualcosa che aveva letto in una biblioteca dove io ero incontrastata regina, mi dava un senso di orgoglio.

Ogni tanto mi avvicinavo a lui, posandogli una mano sulla spalla, e gli chiedevo: — Come va stamattina, Bobby? — e lui mi rispondeva in modo da farmi sentire ancor più profonda­mente la sensazione che avevamo scoperto insieme qualcosa di importante.

Quel sabato mattina non c’era niente d’insolito nella sala di lettura, se si eccettua il fatto che Bobby era talmente assorto nel libro che mi aveva richiesto da non accorgersi quando andai alla finestra per calare a metà la veneziana.

Tornando, mi fermai accanto a lui per dire: — Non dovresti leggere col sole che ti batte sul libro, Bobby. Ti rovinerai la vista.

— Sapevo che avrebbe abbassato la veneziana.

— Davvero? — replicai. — Dai molte cose per scontate, Bob­by. Se non avessi guardato per caso dalla tua parte…

— Si sarebbe alzata comunque per andare ad abbassare la ve­neziana.

I misteri non svelati, anche se trascurabili, hanno la facoltà di ridurre la mia efficienza quando devo svolgere il monotono com­pito di inserire ed estrarre le tessere dal duplicatore, e le parole di Bobby m’indussero a chiedergli subito una spiegazione.

— Come facevi a saperlo? — domandai.

— Era facile — disse lui, e io ebbi la sensazione che non avesse nemmeno badato alla mia domanda tanto era assorto nel libro che stava leggendo. Ma non mi bastò quella risposta.

— Ti ho chiesto come facevi a saperlo — replicai bruscamente. — Non come sia stato facile. Non mi dirai che sai leggere nel pensiero, Bobby.

— Basterebbe che volessi.

— Che volessi… cosa?

— Il sole… negli occhi — borbottò lui con impazienza, come se non vedesse l’ora di vedermi andar via. — Le ho detto di…

D’un tratto si raddrizzò, depose il libro e mi guardò come se mi vedesse per la prima volta, quella mattina. Ebbe un sussulto e una vampa di rossore gli imporporò le guance.

— Mi scusi, signorina Hartley — balbettò. — Non sapevo cosa dicevo.

Naturalmente lo sapeva benissimo, invece. Ma capita a volte di essere tanto assorti che non ci si rende conto appieno di quan­to ci viene detto. Di solito si risponde a orecchio, ma non in mo­do illogico. In realtà, più che altro, si cerca di sintonizzare la pro­pria mente cercando di eliminarne quella specie di interferenza statica, e salgono alle labbra parole che in altre condizioni non si pronuncerebbero.