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— Ti aspettavi che abbassassi la veneziana perché mi avevi detto di farlo — insistetti. — Hai detto proprio così, e adesso de­vi spiegarti, perché non capisco.

Nella sala c’erano adulti e tre giovani e ormai l’attenzione di tutti era fissata su noi due. Io parlavo a bassa voce, ma questo non bastava a giustificare il peggior delitto che un bibliotecario può commettere: infrangere la regola del silenzio da lui stesso ri­gorosamente fatta rispettare.

— Non… era quello che intendevo dire — spiegò Bobby. — Solo speravo che avrebbe abbassato la veneziana e sapevo che l’avrebbe fatto, se mi fossi alzato a chiederglielo. Così ho ritenu­to inutile dirglielo. È come… be’, qualche volta quando ci si tro­va su un autobus affollato e si fissa intensamente il passeggero che sta davanti… e quello si volta. Sembra che la gente senta…

— Dunque hai fatto un piccolo esperimento di percezione ex­trasensoriale — dissi.

— Se vuole chiamarlo così — fece lui. — Io non sarei del pare­re. È molto attenuato.

Attenuato! È caratteristico di Bobby dare delle definizioni si­mili, che servono solo a rendere ancora più oscura e vaga la que­stione. Quando una persona riesce a far fare qualcosa a un’altra limitandosi a fissarla, significa che ha comunicato telepaticamen­te con lei. Certo, nelle parole di Bobby c’era una mezza verità. È un esperimento talmente semplice che molti lo hanno tentato, e sono rimasti stupiti nel constatare che spesso funziona.

A questo livello, la telepatia è data per certa. Ma quel che Bobby apparentemente non capiva era che stava cercando di na­scondermi i suoi poteri telepatici, e di convincermi che erano normali, trascurabili.

Non so perché fossi tanto turbata per quel che Bobby pensava di aver fatto. Era sciocco, non aveva senso, e in fondo non ero arrabbiata con lui. Ma non posso sopportare che uno prima di­chiari una cosa e poi cerchi di negarla, proprio come aveva fatto lui.

— Hai dichiarato di avermi “detto” d’attraversare la stanza e abbassare la veneziana — ripetei. — Non si tratta solo di una co­sa che tu speravi facessi in risposta a un tuo vago desiderio.

Prima che lui potesse rispondermi, una voce che mi fece sob­balzare — sebbene la riconoscessi — mi sussurrò all’orecchio: — Sta dando il cattivo esempio, dea. Non sempre il silenzio è d’oro. Ma qui si ritiene che sia sacro, e che venga offeso in modo tanto grave dalla divinità tutelare…

Tutte le volte che John Dyson mi parlava con quel tono mi rammaricavo di non avere a portata di mano un secchio d’acqua gelata da rovesciargli in testa.

Non ero arrabbiata con lui più di quanto non lo fossi con Bob­by. Ma che cosa si può fare quando una persona che ti piace insi­ste nel presumere che tu sia sempre di umore allegro, espansivo e socievole, e disposta a danzare in una sala da ballo che esiste solo nella sua mente? E che diritto aveva di farmi sussultare a quel modo avvicinandosi silenziosamente sulle suole di gomma e fa­cendomi scivolare un braccio intorno alla vita, ignorando com­pletamente quello che avrebbe potuto pensare uno dei suoi al­lievi?

Non appena mi sentì irrigidire con aria di rimprovero, staccò subito la mano, ma non prima che tutti i presenti fossero stati sfa­vorevolmente colpiti dall’inopportunità di quel gesto.

Se l’avessi visto entrare sarei rimasta al banco, e nessun ordine telepatico di Bobby mi avrebbe indotta ad alzarmi. Seduta, col banco fra noi due, mi sarei sentita al sicuro, sebbene lui abbia le braccia lunghe.

Adesso il male era fatto, e io ero sicura che le tre vecchie pet­tegole del tavolo vicino — in primis la signorina Hargrave — non avevano più il minimo dubbio che fra noi due ci fosse “qualcosa”. Se fosse stato vero non me ne sarebbe importato più di tanto. Quando le chiacchiere sul nostro conto contengono più verità che menzogna, la cosa migliore è assumere un’aria sicura e indi­pendente. Si ha un bel dire che la nostra vita privata è una cosa che riguarda soltanto noi, e sostenere le proprie posizioni svento­lando bandiere di sfida. Ma quando le dicerie sono completa­mente false, sfida e indipendenza falliscono prima di nascere. Come ci si può difendere contro qualcosa di cui non ci si sente colpevoli nemmeno se fosse vera? Lo si può fare, certo, ma senza convinzione. L’unica cosa che fa rabbia è la malignità del pette­golezzo in sé.

“Tempo stasera” pensai “e sarò sulla bocca di tutti”. A discol­pa di John Dyson bisogna dire che secondo me non aveva la mi­nima idea che il suo gesto potesse fornire l’occasione alle lingue pettegole di mettersi in movimento. Tutti gli uomini, praticamen­te, si comportano qualche volta in modo puerile e irresponsabile. Però lui avrebbe avuto molto da imparare da Bobby Jackson.

A quattordici anni, Bobby era in grado di dare un luminoso esempio di autocontrollo al suo trentaduenne mentore. Era pro­prio quel che stava facendo ora, fingendo di trovare tanto inte­ressante il libro da non riuscire a staccar gli occhi dalla pagina.

— Salve, Bobby — disse John Dyson, come se lo vedesse solo in quel momento. Era una trascuratezza che avrebbe potuto irri­tare un allievo brillante come lui, ma Bobby si limitò ad alzare gli occhi dal libro e a sorridere.

— La signorina Hartley e io stavamo parlando delle percezioni extrasensoriali — disse. — Io credo che ci sia del vero… perché a volte s’indovina quel che pensano altre persone.

Forse sbaglio, ma mi parve di vedere un’ombra di stupore ne­gli occhi di John Dyson.

— È interessante, Bobby — disse — cosa ti fa…

Io l’interruppi posandogli una mano sul braccio. — Abbiamo bisbigliato anche troppo. Lei stesso ha appena detto che do il cat­tivo esempio.

— Ho anche detto che una dea ha dei privilegi — mi ricordò. — E anche se non fosse una dea, il privilegio sussisterebbe ugual­mente. Nell’antichità, l’oracolo dei templi di Apollo era sempre una donna, e godeva di tali privilegi che poteva parlare finché vo­leva. E poiché qui lei è la sacra custode, oltre che la dea…

— Non sono una dea e non ho alcun privilegio — tagliai corto. — Mi vergogno di me stessa, dovrebbe vergognarsi anche lei. L’unico scusabile è Bobby, perché sono io che l’ho indotto a par­lare.

Naturalmente parlavo un po’ sul serio e un po’ per scherzo, e lui, poi, era tutt’altro che serio. Ma questo non impediva che mi sentissi turbata e seccata. Le incongruenze mi turbano sempre, e giudicavo perlomeno strano quel modo di parlare di John Dyson in presenza di Bobby. Come si poteva pretendere che il ragazzo rispettasse la regola del silenzio in biblioteca se il suo professore la prendeva sottogamba al punto da scherzarci su e da indurre perfino me ad ascoltarlo, per un momento?

Considerava Bobby così diverso dai suoi compagni che il deco­ro, che un insegnante dovrebbe sempre mantenere, poteva esse­re messo da parte completamente, senza rischi? La distanza che si presume debba dividere un insegnante dai suoi alunni s’era co­sì accorciata nei confronti di Bobby da non funzionare più come barriera e da consentire fra loro due un cameratismo da adulti?

Ma come mai m’era venuta un’idea simile? Avevo la sensazio­ne che mi si fosse insinuata nel cervello senza che lo volessi e vi rimase a lungo, come se non volesse scomparire.

Mi voltai bruscamente, e tornai al banco, sicura che il sussurrìo avesse infastidito tutti i presenti, compreso uno sconosciuto — certo di passaggio a Lakeview — che mi aveva salutato con un sor­riso quando avevo attraversato la stanza per abbassare la vene­ziana. La sua faccia mi sembrava vagamente familiare e probabil­mente l’avevo già visto. Ma di una cosa ero certa, il suo sorriso si era trasformato in cipiglio.