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John Dyson mi seguì al banco. Mi sistemai con la macchina duplicatrice fra noi e, per fargli capire che ero molto occupata, co­minciai a sistemare le schede dall’A all’H contenute nel cassetto che avevo estratto dallo schedario di metallo prima di commette­re l’errore d’ingaggiare una battaglia verbale con Bobby Jackson.

Quello sciocco scambio di battute mi riecheggiava nella mente, ed ero molto più padrona di me di quanto non lo fossi stata la se­ra prima quando John Dyson m’aveva stretta fra le braccia e ave­va premuto le sue labbra sulle mie davanti alla porta di casa mia, una porta di stile georgiano restaurata, illuminata dalla lunetta. Un appartamento a pianterreno con una porta simile è una rarità a Lakeview, ma avevo avuto l’impressione che l’architettura non gli interessasse per niente, in quel momento.

Rimase a guardarmi in silenzio, mentre facevo scorrere le schede, poi si protese sul banco e spinse da parte il cassetto.

— L’argomento della discussione con Bobby doveva essere molto interessante — disse. — Perché non vuole parlarne?

— Se vuole saperlo — risposi — mi riesce difficile dimenticare quel che lei ha fatto un momento fa. È imperdonabile. Tutti sa­ranno convinti che non è venuto qui per prendere un libro.

— Ha ragione — disse lui. — Adesso sanno che a Lakeview esiste per lo meno un uomo che non la considera solo una gentile bibliotecaria… Chissà perché nessuno ci ha pensato prima.

— Solo perché abbiamo pranzato qualche volta insieme — dis­si — si arroga il diritto di entrare in biblioteca e abbracciarmi tut­te le volte che le viene in mente. In un’epoca tumultuosa come la nostra una bibliotecaria di vecchio stampo, gentile con tutti, può suscitare dei sentimenti di gratitudine, ma non fino a questo pun­to! Il suo modo di fare non può ingannare nessuno. Lei dice che è proprio quel che vuole, e io so perché. Il suo ego maschio è lusin­gato dal fatto di avere scoperto in me qualcosa che altri non han­no notato.

— Andiamo…

— Non ha pensato — proseguii imperterrita — che quel che crede di aver scoperto può anche non esistere? Io sono un topo di biblioteca e nessuna strabiliante acconciatura riuscirà mai a na­sconderlo.

— Adesso sta dicendo delle madornali sciocchezze — dichiarò lui. — Che se ne renda conto o no, lei è una donna molto attraen­te. È solo la polvere che si solleva dagli scaffali e che l’avvolge che impedisce agli altri di vederla come è.

— La biblioteca è pulitissima e lo sa — dissi. — Perderei subi­to il posto se lasciassi che la polvere si accumulasse sui libri, an­che se certuni non sono mai richiesti.

— Be’… la pensi come vuole — si arrese lui. — Io la trovo bel­lissima. Una vera dea che sorge dalle onde avvolta in sette veli misteriosi.

Come si può ragionare con un tipo così? Feci ancora un tenta­tivo. — Spero che quanto è successo ieri sera non le abbia fatto pensare che la dea ha i piedi d’argilla. Era un bacio di commiato, né più né meno. E mi ha meravigliato constatare che l’ha preso tanto sul serio.

— Per me è stato una specie di… be’, di esplosione — disse lui. — Ha fatto crollare tutta la mia timidezza. E quando la timi­dezza è crollata e tutte le difese spianate, come si suol dire, spes­so si agisce in modo sciocco e irresponsabile. Ecco perché ora le chiedo scusa se l’ho abbracciata per un istante. Non avevo la mi­nima intenzione di metterla in imbarazzo.

— Che strano modo di parlare di un bacio! — dissi. — Un’esplosione. Io credevo che i baci fossero teneri.

— Abbiamo cercato, ma non credo che ci siamo riusciti.

— Adesso mi fa venire la sensazione che sia io a dovermi scu­sare. Forse è meglio metterci una pietra sopra.

— Impossibile — disse lui. — No, mi ha ancora detto se mi perdona o no.

— Purché mi dia la parola d’onore che non lo farà più.

— Mai di domenica… o nelle ore di biblioteca — rispose lui. — Prometto.

Dalla mia espressione, ero sicura che sapeva d’avere riportato una piccola vittoria. Ma doveva essere altresì certo che sarebbe durata, perché aspettò un minuto prima di dire: — E adesso, for­se mi racconterà perché stava discutendo di telepatia con Bobby Jackson.

— Bobby aveva il sole negli occhi — spiegai — e perciò mi ero alzata per andare ad abbassare una veneziana. Mentre tornavo al banco, mi sono fermata accanto a lui per dirgli di stare attento a non rovinarsi la vista, e lui… be’, mi ha detto che sapeva che sa­rei andata ad abbassare la veneziana. Non credo che si rendesse conto di quel che diceva, tanto era assorto nel libro che stava leg­gendo. Gli ho chiesto come lo sapesse e la sua risposta mi ha fat­to saltare la mosca al naso.

— E che cosa ha detto, Laura? — volle sapere John Dyson. Io l’osservai sorpresa, chiedendomi perché mi avesse interrotta con tanta impazienza. Evidentemente giudicava molto importante quello che Bobby aveva detto.

— Ha asserito di avermi detto di andare alla finestra e sapeva che l’avrei fatto… perché aveva comunicato telepaticamente con me. Dopo di che abbiamo cominciato a discutere, ma mi è sem­brato molto colpito e sorpreso come se, involontariamente, aves­se detto qualcosa che non doveva.

— Capisco — disse John Dyson. — Temo che Bobby cerchi di nascondere molte cose, e non solo a lei. Non riesco a capirlo fino in fondo e sì che gli sono simpatico e si fida di me come della sua famiglia. E dico molto, perché adora suo padre.

La sua aria preoccupata mi colpì. Era molto serio, adesso, co­me se le sue ultime parole fossero scaturite da una zona della sua mente rimasta fino allora nascosta.

— È da un po’ che Bobby ha qualcosa che lo preoccupa — dissi. — Crede che quanto ha detto mi giunga nuovo?

Lui sembrò sollevato nel sentirmi parlare così. — No, non del tutto. Lei è un’ottima osservatrice, e Bobby frequenta spesso la biblioteca. Quanto? Tre o quattro volte la settimana?

— Per lo meno.

— E di solito rimane a lungo?

— Qualche volta tre o quattro ore — risposi. — Specie il saba­to mattina.

— Che genere di libri legge? — chiese John Dyson.

— Prima leggeva libri di storia, biografie, trattati scientifici, e qualche volta romanzi: Faulkner, Hemingway, Bellow. Anche H. G. Wells e Poe, e Jules Verne. Di poesia, Shelley, Baudelaire, e ancora Poe. Niente di giovanile, nemmeno L’ultimo dei Moicani. Secondo lui, Cooper aveva uno stile ridicolmente pue­rile, e una volta trascrisse tre pagine di Calza di cuoio per fare un esempio di come avrebbe dovuto essere scritto. Se avesse riscrit­to tutto il libro, sono certa che l’avrebbe migliorato. Ma non è poi un’impresa troppo difficile. Non credo invece che riuscirebbe a migliorare un solo paragrafo di Moby Dick, nonostante le frasi oceaniche. O Henry James, nonostante i suoi periodi lunghi inte­re pagine.

— E adesso?

— Da circa un mese solo libri di…

— Di cosa, Laura?

— Li si potrebbe definire romanzi di “non fantascienza” — ri­sposi. — Abbiamo una sessantina di titoli che corrispondono al genere, e tutti recenti. Sono romanzi nel senso che si tratta di opere di fantasia a contenuto drammatico. Non pretendono di essere dei trattati scientifici. Speculano con la fantasia su quello che potrebbe succedere se… se qualcuno premesse il bottone sbagliato a Cape Kennedy e il mondo finisse domani. Non sono romanzi veri e propri perché mancano d’intreccio, di conflitto di caratteri e di soluzione finale. In massima parte aderiscono a una premessa rigidamente prestabilita.

— Se ne ricorda qualcuno?

— Be’… Siamo soli nell’Universo?, Riesame del fattore della distanza cosmica, Universi pluridimensionali, Viaggi spaziali, ol­tre la velocità della luce, Gli osservatori silenziosi, Gli Ufo e l’ipo­tesi fondamentale del tempo, Spazio tangenziale e abitanti di altri mondi, Singolari mutazioni fisiche nell’atmosfera esterna terre­stre. Per lo più sono pubblicati da piccole case editrici e pochissi­mi vanno al di là della prima edizione.