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Fu allora che le parole precise sembrarono echeggiare nei cor­ridoi della mia mente con voce che non poteva essere la mia: “È privilegio del genio adeguarsi a regole da lui stesso create… in moltissimi campi dell’esperienza umana. Bisognerebbe essere grati che le regole non vengano trascurate più sovente, dacché molte di esse paiono del tutto prive di senso”.

Abbassai lo sguardo e m’accorsi che mi tremava la mano. Ma qualche volta basta il peso di quattro grossi volumi per giustifica­re un tremito come quello, e così strinsi le labbra e mi avviai di buon passo verso il banco, dove John Dyson stava tamburellando con le dita sulla base della macchina duplicatrice.

— Bene — dissi. — Ecco qua. Spero che Bobby non venga al banco mentre lei li sta esaminando. Se le interessa il mio parere, è una forma riprovevole di spionaggio.

— Non lo pensa sul serio. Tutt’e due cerchiamo di aiutare Bobby a superare una crisi emotiva, perché possa crescere dritto e resistente come un giovane salice.

Tutte le volte che smette di essere serio e parla in quel modo — ne ho già accennato prima perché mi secca molto — mi riesce dif­ficile perdonarlo. Tuttavia lo perdono, sempre… e poi me ne pento.

Mi sono spesso chiesta perché gli uomini preferiscano farsi aiu­tare da una donna quando intraprendono un compito assurdo. Provano un senso di colpa che credono possa scemare se si assi­curano la tacita approvazione del sesso più sensibile.

Quando John Dyson mi porse due volumi, dicendo: — Esami­ni questi, mentre io penso agli altri — ebbi l’impressione che vo­lesse coinvolgermi nella sua cospirazione.

Stavo per dirgli di sbrigarsela da solo, perché non mi andava di cospirare contro Bobby per compiacerlo. Poi mi ricordai degli strani pensieri che mi erano passati per la testa e, sebbene rifiu­tassi di credere che Bobby potesse esserne il responsabile, scoprii che ero un po’ seccata.

Era una cosa illogica. Ma poiché, per causa di John Dyson, provavo un senso di colpa, decisi che potevo smetterla di critica­re il mio comportamento e di cercare la conferma di quanto già ritenevo certo… cioè che non avrei trovato annotazioni a margi­ne nei due libri.

Il primo era immacolato e stavo lentamente sfogliando il se­condo, Siamo soli nell’Universo?, quando trattenni il fiato e lan­ciai una rapida occhiata a John Dyson, sperando che non avesse colto il mio sussulto di sorpresa.

No, non si era accorto di niente. Stava ancora voltando le pagi­ne del più grosso dei quattro libri, Universi Pluridimensionali, pensoso, con la fronte corrugata.

Il commento a margine era molto breve, scritto con la grafia infantile di Bobby, il che escludeva la possibilità che fosse stata opera di un altro lettore.

Sulla pagina, in alto, di fianco a un paragrafo sottolineato, Bobby aveva scritto: “Chiaroveggenza? Certo. Deve averlo sa­puto… come lo so io”.

Lessi in fretta il paragrafo sottolineato: “E cosa accadrebbe se apparissero in mezzo a noi, come sono realmente, creature così estranee da attirare l’attenzione? Che accadrebbe se una razza dotata di grandissima intelligenza commettesse un così incredibi­le gesto di follia? Ma è improbabile. Possiamo tuttavia essere certi che non perderebbero tempo a mettere in atto con altri mo­di le loro imperscrutabili doti naturali… e ve n’è uno che si po­trebbe rivelare disastroso su scala mondiale. Per una razza come quella sarebbe molto difficile riuscire a contrastare lo stampo ge­nuino della nostra comune umanità, che ci unisce tutti anche se non siamo uguali? Se ci chiedessero di scegliere fra un nemico politico o sociale e un nemico sconosciuto e senza faccia o incre­dibilmente spaventoso si possono avere dubbi sulla nostra scelta? Solo la voce umana ispira fiducia e le fattezze e i gesti di un esse­re umano come noi potrebbero servire come arma per la nostra distruzione. Chi potrebbe sospettare, chi potrebbe sapere che un vicino gentile, o perfino un qualsiasi individuo che non ha nulla di terribile in sé, e ispira la stessa fiducia, POTREBBE NON ESSERE UMANO?”

Non avevo poi sbagliato molto definendo i libri per cui Bobby aveva dimostrato di recente tanto interesse come romanzi di non­fantascienza. Questo non era diverso dai pochi che avevo letto, una specie di prova Rorschach vista come escursione nell’inco­gnito. L’autore era poco noto ed era morto pochi mesi dopo l’ar­rivo del libro in biblioteca. La sua scheda, oltre al riassunto del­l’unico volume che l’autore aveva scritto e dei suoi dati personali, non recava titoli di altri libri. Quel riassunto l’avevo ricavato dal­la presentazione stampata in copertina, e, sebbene la copertina stessa fosse stata poi tolta, ricordo che non avevo trascurato niente e che non avevo tralasciato particolari interessanti.

Nonostante l’autore fosse sconosciuto, il libro aveva affascina­to parecchi lettori, dato che era stato richiesto quindici volte in sei mesi.

Che avesse affascinato anche Bobby era indiscutibile. Ma che cosa significava il suo strano commento: “Deve averlo saputo… come lo so io?”

Saputo cosa? Che gli abitanti degli altri mondi, qualora fossero venuti a invadere e conquistare la Terra, avrebbero rinunciato al loro aspetto mostruoso? No… non era proprio così. Erano mo­stri ma nessuno se ne sarebbe accorto perché sarebbero sembrati dei… cordiali vicini? L’uomo o la donna della porta accanto? Pensai che non potevo essere assolutamente certa di quel che aveva voluto dire l’autore se non leggevo tutto il capitolo. E non potevo farlo perché in qualsiasi momento John Dyson avrebbe potuto alzare gli occhi da Universi Pluridimensionali e accorgersi della mia perplessità.

Dovevo proteggere Bobby o no? E se John Dyson aveva ragio­ne? E se davvero il ragazzo correva il pericolo di un turbamento emotivo in un’età in cui la minaccia poteva essere sventata solo accattivandoci la sua fiducia e dandogli la certezza che quando ne avesse avuto la necessità avrebbe sempre potuto contare sulla guida intelligente degli adulti?

“Doveva saperlo… come lo so io”. Di sicuro qualsiasi psicolo­go infantile avrebbe riconosciuto, in quel commento, un allar­mante indizio che non tutto funzionava a dovere in Bobby.

Verso gli otto o i dieci anni, i ragazzi si fanno delle idee che, in un adulto, sarebbero considerate paranoiche. Ma Bobby era troppo grande ormai per quel genere di illusioni create dall’auto­suggestione. Ciò che avrebbe potuto essere considerato un gioco in un bambino sarebbe stato invece grave in un ragazzo di quat­tordici anni. Un quattordicenne avrebbe dovuto rendersi conto di quale credito faceva alla credulità sostenendo che, in chissà quale modo misterioso, si era imbattuto in un segreto che nessun altro, eccetto forse l’autore di Siamo soli nell’Universo?, condivi­deva con lui.

Presi rapidamente una decisione. Dovevo mostrare a John Dy­son il commento in margine e il paragrafo sottolineato, altrimenti avrei mancato nei riguardi di Bobby, invece di proteggerlo.

Mi rendevo finalmente conto che le preoccupazioni di John Dyson erano fondate. Non aveva spiato senza giustificati motivi nelle preferenze letterarie di Bobby, e gli dovevo delle scuse per averlo pensato.

Accadde tanto improvvisamente che fui colta alla sprovvista. Stavo per allungare una mano verso John Dyson, quando inco­minciarono a tremarmi le dita. Dapprima pensai che si trattas­se di un tremito nervoso — mi capita alle volte, quando devo sfogliare per un’ora e più fasci di schede — e aspettai che ces­sasse.

Invece continuò. E, per di più, una violenta scossa mi corse dalla punta delle dita al gomito. Era proprio come una violenta scossa elettrica, improvvisa e dolorosa, che mi strappò un grido, mentre il libro, che tenevo con l’altra mano, cadeva sul banco.

Il dolore cessò nell’attimo stesso in cui lasciai cadere il libro e quando John Dyson si volse a guardarmi preoccupato, ero già in grado di muovere liberamente le dita senza provare dolore.