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Quando vide che mi massaggiavo la mano, mi sorrise.

— Oh, no — disse. — Non avrà i reumatismi alla sua età?

Ero ancora troppo sbalordita per riuscire a rispondere. Lo guardai mentre si chinava a raccogliere il libro, e mi chiesi che cosa avrebbe pensato se gli avessi detto la verità.

Decisi di tacere. Non avrei saputo come spiegare quello che m’era successo, se lui pensava che si trattasse di reumatismi, tan­to meglio. Si possono avere i reumatismi anche a vent’anni, non è una disgrazia. La disgrazia era pensare come avevo pensato io, e cioè che qualcuno non aveva voluto che io richiamassi l’atten­zione di John Dyson su quanto Bobby aveva scritto a pagina ses­santasette di Siamo soli nell’Universo?.

Con mio grande stupore, lui sfogliò rapidamente il volume e me lo restituì con aria delusa.

— Be’, evidentemente mi sono sbagliato — disse. — Bobby non scrive sul margine dei libri della biblioteca. A quanto sembra quelli di scuola non sono altrettanto sacrosanti ai suoi occhi.

“Ma sì che scrive!”, stavo per ribattere, quando mi sentii strin­gere la gola e provai un senso di stordimento. Non riuscivo a spiccicare parola e mi sembrava d’essere sul punto di svenire.

Lo stordimento durò un attimo, ma fu sufficiente perché sen­tissi John Dyson che diceva: — Telefonerò alle sette meno un quarto. Il primo spettacolo comincia alle otto e mezzo e così avremo il tempo di cenare e di arrivare prima che ci sia troppa gente. — Bastò perché mi accorgessi che si era girato e stava an­dandosene senza voltarsi. Lo vidi fermarsi, posare una mano sul­la spalla di Bobby e dirgli qualche parola. Poi raggiunse la porta, si fermò un attimo per sorridermi agitando la mano, e scese i gra­dini che portavano in strada. Lo vidi dalla finestra mentre attra­versava Elm Street, coi capelli scompigliati dal vento.

Non appena lo stordimento passò guardai verso la sala di lettu­ra e vidi che Bobby aveva smesso di leggere. Mi guardava fisso e aveva una inequivocabile espressione di trionfo.

Dopo un momento abbassò gli occhi, e io pensai che volesse ri­cominciare a leggere. Invece chiuse Messaggi dallo spazio: realtà o fantasia?, si alzò e venne verso di me con il libro in mano. Lo posò sul banco davanti a me, e mi sorrise. Nei suoi occhi non c’e­ra traccia di colpevolezza e nemmeno d’imbarazzo.

— Può darsi che voglia riprenderlo — disse. — L’ho quasi ter­minato, ma giovedì ho preso in prestito due libri e credo che sia meglio che legga prima quelli.

Non so cosa m’impedisse di afferrarlo per un braccio e chieder­gli se i libri che aveva portato a casa contenevano delle annota­zioni a margine così indicative che i suoi genitori potevano corre­re il rischio di morire fulminati. Forse non lo feci perché m’accor­si che mi tremavano le mani e lui mi guardava in modo strano. Quando presi il libro mi tremavano ancora. Bobby si rese conto che qualunque cosa gli dicessi poteva compromettere la nostra amicizia. Nei suoi occhi si leggeva chiaramente: “Cerchi di per­donarmi. Ho proprio dovuto farlo”.

Tornò a sorridere, si volse di scatto e se ne andò. Lo vidi uscire dalla porta principale ma non attraversò Elm Street come aveva fatto il suo professore. Questo, per lo meno, non mi sorprese. Stando sul lato in ombra della strada, e proseguendo dritto verso nord, avrebbe impiegato lo stesso tempo per arrivare a casa e, per quanto giovane sia, quando uno è afflitto da sensi di colpa, ha la tendenza a evitare la luce del sole.

Appena cessato il tremito avrei dovuto alzarmi per andare a riporre il libro restituito da Bobby. Ma per un buon minuto non mi fu possibile muovermi, e adesso penso che sia stata la mia completa immobilità a indurre lo sconosciuto seduto accan­to alla finestra della sala di lettura a pensare che era improbabi­le che io guardassi dalla sua parte mentre faceva una cosa tal­mente incredibile al cui confronto il comportamento di Bobby pareva normale.

Il giovane seduto vicino alla finestra si strappava via la faccia!

Lo fece con una tale rapidità che il movimento delle dita si no­tò appena. E mentre, sconvolta, fissavo la finestra, col cuore stretto da una morsa gelida, potei vedere la carne che veniva staccata dagli zigomi, e un liquido lucido nel punto in cui le or­bite erano diventate cavernose come quelle di un teschio.

Non impiegò più di dieci secondi a ricostruirsi la faccia, serven­dosi di un pezzo di carne avanzata per allungare il naso, ampliare il contorno delle mascelle e conferire alle sue fattezze un’aria più matura.

Nessuno degli altri lettori lo stava osservando, altrimenti avrebbe notato l’orripilante trasformazione. Metà gli voltava la schiena, e gli altri erano assorti nella lettura. Aveva scelto con cura il momento, sapendo in anticipo di poter contare su una de­cina di secondi in cui sarebbe stato inosservato.

Come poteva prevedere che io avrei alzato improvvisamente gli occhi su di lui e avrei visto, per pochi spaventosi attimi, una maschera dalle fattezze umane, sotto cui si celava un’entità mo­struosa, venire strappata e riadattata? Come avrebbe potuto pre­vederlo, quando io un attimo prima me ne stavo seduta immobi­le, con gli occhi incollati sul libro restituito da Bobby?

Altrettanto terrificanti furono le parole che presero forma nel­la mia mente mentre gli ricambiavo lo sguardo gelido e ostile: “Non voglio che il figlio del banchiere mi riconosca. Già da un po’ di tempo sospetta la verità, e io lo tengo sotto costante osser­vazione. Adesso lei sa… il che è peggio… molto peggio… molto più di un pericolo. La dovrò uccidere”.

7

Bruce Conley

Non appena scesi dal treno a Lakeview e mi guardai intorno, provai una strana sensazione. Mezz’ora dopo ne ero sicuro. La città aveva brio, atmosfera. Aveva praticamente tutto quello che occorre a una città per fare un’ottima impressione su un rappresentante di giocattoli meccanici con una valigia piena di campioni.

Non era né grande né piccola, di tipo rurale ma con due grandi ciminiere sullo sfondo che le conferivano un promettente aspetto industriale. Io non vendevo cose che potessero servire in una fab­brica, ma le grosse ciminiere parlavano di progresso e progresso significava prospettive di buoni affari.

C’era un quartiere commerciale che si diramava per angoli retti da un enorme edificio di granito che portava scritto a tutte let­tere: “Municipio”; la strada principale era fiancheggiata da nego­zi, bar e ristoranti dall’aspetto invitante stretti fra palazzi a quat­tro piani adibiti a uffici.

Il ristorante che scelsi aveva il menu attaccato alla vetrina con nastro adesivo. Le specialità di frutti di mare e i prezzi modici mi attirarono. Era una specie di tavola calda, ma oltre il banco c’e­rano anche diversi tavolini, fra cui vidi passare una cameriera; l’unica del locale, forse. Ma era difficile giudicare dall’esterno. Era una frizzante giornata di settembre e il sole brillava alto pro­vocando un riflesso così forte che mi pentii di aver riposto gli oc­chiali scuri in fondo alla valigia, dove avrei potuto ripescarli solo dopo aver preso una stanza in albergo.

In quel momento il pensiero più impellente era il cibo, perché mi era venuto un appetito formidabile che poteva essere compro­messo se avessi avuto a che fare con una donna sola. Difatti una donna sola m’induce di solito a rimandare il pranzo, per lo meno fino a quando non l’ho convinta a mangiare insieme. Ma non quella volta. Avevo tanta fame che sarei stato capace di ingurgi­tare perfino le cavallette candite importate dal Giappone.

Inoltre, tre o quattro cameriere in genere sono meglio di una. Ma quell’una poteva essere speciale. La legge della mediocrità va contro questa possibilità, ma è una legge in cui non ho mai avuto molta fiducia; dopotutto, cosa m’impediva di entrare nel risto­rante e fidarmi nella buona stella che mi facesse trovare una ra­gazza ben pettinata, con caviglie tornite e altri attributi capaci di riscaldarmi il sangue?