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Diedi un’altra occhiata al menu, sollevai la valigia e, col passo sciolto e sicuro che piace alle donne e che non mi costa alcuno sforzo — mi riesce naturale camminare così quando non devo cor­rere per prendere un treno — entrai nel ristorante.

Tre secondi dopo tornavo a deporre la valigia, talmente sbalor­dito da quello che stavo vedendo, che per poco non ci inciampai mentre mi precipitavo a sorreggere la ragazza prima che si afflo­sciasse a terra.

Non stava più girando fra i tavoli, come prima. Probabilmen­te aveva incominciato a vacillare quando io guardavo attraverso la vetrina: nessuna donna avrebbe potuto avere l’espressione che aveva lei senza vacillare: pallida come una morta, gli occhi sbarrati dal terrore, fissava uno dei tavolini vuoti come se aves­se paura che si animasse tutt’a un tratto e le andasse incontro balzelloni.

Dovetti cingerle la vita con il braccio per sorreggerla. Solo stringendola forte le avrei impedito di cadere. Ne ero certo come ero certo che mi sarebbe stata grata e non avrebbe pensato che ero troppo audace.

Una cosa l’avevo indovinata. Quella ragazza era speciale. Ca­pelli d’ebano, occhi azzurri e tutto il resto, contribuivano a fare di lei il tipo di ragazza che preferisco.

— Cosa succede? — chiesi. — Cerchi di calmarsi un po’ e me lo dica. Di solito parlare fa bene…

— Era… era seduta là — balbettò lei con voce soffocata — …lui le si è messo alle spalle e l’ha circondata con un braccio. Lei ha cercato di alzarsi, ma lui glielo ha impedito. Le ha messo una mano sulla bocca per impedirle di gridare. L’ho visto distinta­mente per un minuto ma non l’avevo visto entrare. Era… era lì, ecco, all’improvviso, venuto dal niente, come se fosse sbucato dal muro dietro il tavolino. — Adesso tremava violentemente: — Un uomo di mezza età, dai capelli grigi, che viene a mangiare qui tre volte alla settimana. È ben vestito e ha una faccia simpatica. Non so come si chiama. Di solito siede al banco, perché non vie­ne mai presto come oggi e quando arriva tutti i tavoli sono già oc­cupati. Qualche giorno fa abbiamo pensato che volesse chiamare la polizia. Un altro tizio, un camionista, mi pare, litigò con lui e per un momento credemmo che l’avesse gravemente ferito. Inve­ce niente. Lui non volle che telefonassi alla polizia dicendo che conosceva il padrone. Diceva che sicuramente il signor Winstock, la moglie del signor Winstock è la padrona del locale, non voleva fastidi che avrebbero dato cattiva fama al ristorante. Più tardi ho scoperto che non conosce affatto il signor Winstock.

— E tutto questo è successo giorni fa?

Lei annuì appoggiandosi così pesantemente a me che pensai di doverla stringere più forte.

— E crede che abbia a che fare con quel che è successo oggi…

— No… almeno non credo — rispose lei. — Fu solo un alterco con un altro individuo. Però…

Esitò, e proseguì in fretta: — Il juke-box andò in pezzi e una scheggia di vetro gli trapassò il petto, così almeno pareva. Invece lui la tirò via e non c’era su neanche una goccia di sangue. Ma an­che questo non… — La voce le venne meno e si aggrappò a me continuando a tremare.

— Dice che una donna era seduta a quel tavolo, che lui è com­parso alle sue spalle e le ha impedito di gridare — dissi. — Bene. Proviamo a partire da questo punto. Lui deve averla spaventata, altrimenti la donna non si sarebbe dibattuta cercando di alzarsi. Allora cosa è successo?

— Lei mi guardava come se sperasse che io potessi chissà co­me aiutarla, ma non credo che ne fosse convinta. Poi… tutto di­ventò buio per un momento, o così mi sembrò, e… e…

— Sì? Calma, via.

— Erano scomparsi tutt’e due.

— Mi stia a sentire — le dissi. — Lei ha avuto uno shock. Oc­corre che mi racconti tutto subito. Abbiamo tutto il tempo che vogliamo. Adesso quei due non ci sono più, il che significa che devono essersene andati qualche minuto fa.

— No… no! È stato meno di cinque minuti fa, subito prima che entrasse lei. E non se ne sono andati. Non nel senso che dice lei. Sono… sono spariti.

— Ha detto che si è fatto buio… quindi non può esserne sicura — le rammentai. — Come può sapere che non se ne sono andati nel più normale dei modi?

M’interruppi di botto. Stavo accettando quello che mi aveva raccontato senza chiedermi se in tutta la storia ci fosse un briciolo di logica. Non era il modo migliore per arrivare alla verità. Quando qualcuno ci racconta una cosa incredibile, è buona rego­la non essere creduloni.

Allungai una mano, tirai una sedia verso di lei e la feci sedere, rammaricandomi di dover ritirare il braccio con cui la tenevo stretta.

— Dunque, chi era la donna seduta al tavolino? — chiesi. — La conosce?

— Sì, certo. Viene sempre qui a mangiare. È la signorina Hartley. Fa la bibliotecaria. Ma è molto simpatica e abbiamo chiac­chierato insieme un mucchio di volte, perché a tutt’e due interes­sano le stesse cose. Mi laureo in lettere a settembre e ho intenzio­ne di fare anch’io la bibliotecaria.

Be’, c’era di che restare a bocca aperta. Cervello, bellezza e tanto spirito da permetterle di accettare un posto di cameriera d’estate per mandar avanti la baracca. Ma in quel momento sem­brava ancora che stesse per crollare nonostante fosse seduta, per­ciò ero troppo occupato per dirle quanto ammiravo il suo spirito indipendente.

— Stia a sentire — dissi. — Quando si è incassato un brutto colpo non si può essere sicuri di quello che è veramente successo. Deve aver sentito parlare dell’ometto che non era qui. Con que­sto non voglio dire che non ci fosse. Dico solo che non può essere sbucato fuori dal muro, avere afferrato la sua amica bibliotecaria e poi essersela portata con lui dentro al muro mentre qui tutto di­ventava buio.

— Ma non l’ha portata fuori dal ristorante — protestò lei con una voce talmente tremula che accrebbe la mia preoccupazione. — Io guardavo la porta. E la porta rimase illuminata anche quan­do il resto diventò buio. Se fosse uscito trascinandola con sé li avrei visti.

Non le dissi che ero rimasto davanti al ristorante per tre minuti almeno a esaminare il menu e a cercare d’indovinare se lei era speciale o no. Se quello che lei mi aveva raccontato era successo un minuto prima che mi decidessi a entrare, anch’io avrei dovuto vedere quell’uomo. Ma avevo visto neppure il locale diventare buio; e questo sistemava tutto.

Allora feci una cosa di cui non mi sarei creduto capace, perché mi sembrò sciocca e impulsiva e difficile da spiegare… un gesto assurdo, insomma, che mi balenò sul momento.

Mi chinai, afferrai la mia valigia e ne trassi un omettino. Senza aver bisogno di caricarlo, lo posai sul tavolo davanti a lei. Pre­metti un bottone… tutto qui.

Era il giocattolo meccanico più ingegnoso che fosse mai stato costruito. Indossava un minuscolo smoking di metallo, con un microscopico garofano appuntato sul risvolto della giacca. Di so­lito, non si portano garofani, sullo smoking, ma i bambini non badano a queste cose. Si divertono e basta.

L’omettino cominciò a camminare. Attraversò tutto il tavolo, fece dietrofront, e riprese a camminare verso di noi. E quando arrivò sul bordo del tavolo, e si trovò proprio davanti a noi due, fece un profondo inchino, accompagnato da un ampio gesto del braccio. Poi si voltò e tornò a camminare.

Io toccai un braccio della ragazza. — Chiuda gli occhi — dissi.

Lei obbedì con aria stupita. Io afferrai l’omettino e lo rimisi in valigia.

— Adesso può riaprirli — dissi.

Lei aprì gli occhi e mi guardò. — È sparito. Ma è chiaro: l’ha rimesso nella valigia.