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— Come può esserne certa? — le chiesi. — Ha chiuso gli occhi per un momento.

— Che cosa sta cercando di provare?

— Niente. Salvo che quell’omettino l’ha sorpresa, e poi… puff! è scomparso. E il suo stupore è aumentato. L’ho visto be­nissimo. Quando una cosa ci stupisce tanto non si può essere si­curi di niente.

— Be’…

— L’ho quasi convinta, eh? Glielo leggo negli occhi. Il peggior sbaglio che potrebbe fare sarebbe di convincersi che quello che ha visto è vero. Non riuscirebbe più a dormire la notte.

D’un tratto scoppiammo tutt’e due a ridere. — Così va meglio — dissi io. — Com’è oggi il filetto di sogliola?

8

Bobby Jackson

Mi svegliai dal peggiore incubo che avessi mai avuto. Avevo pas­sato il pomeriggio a pescare sull’estremità orientale del lago, e stavo tornando a casa attraverso i boschi quando sentii una voce dire: “Bobby, Bobby, corri! Scappa se vuoi salvare la vita! Ti cir­condano, ma non possono ancora vederti. Devono metterti a fuoco, il che è difficile e richiede tempo. Comincia a correre e non guardarti indietro. Solo così ti salverai”.

Allora mi voltai e cominciai a correre. Ma le mie gambe diven­tavano più pesanti a ogni passo, e avanzavo così lentamente che mi sembrava di attraversare un mare di colla.

“Bobby” incalzò la voce “che cosa ti trattiene? Non fare lo stu­pido! Basta che tu corra, ma sembra che tu non voglia proprio salvarti”.

“Non posso” gridai, il che era stupido dato che la voce era den­tro di me. “Non vedi che faccio fatica a muovermi?”.

“Sciocchezze, Bobby. Non sei nelle sabbie mobili. Prova a fare uno sforzo. Vuoi che ti prendano?”

Adesso sui boschi gravava un pesante silenzio ed era peggio delle grida precedenti.

Ebbi la sensazione che tutti mi avessero abbandonato, come se tutti i miei amici di un tempo fossero a poppa di una nave che si allontanava attraverso i boschi lungo uno scivolo e mi fissassero con aria di freddo rimprovero perché non avevo fatto una cosa.

Allora ricominciai a correre, e la pesantezza alle gambe scom­parve improvvisamente, mentre io barcollavo da un albero al­l’altro come un daino ferito. Mi sembrava di fuggire davanti a centinaia di cacciatori sparpagliati nel bosco e intenti ad abbatte­re tutti i cartelli di divieto di caccia per essere certi di non avere noie con la legge, prima di avventarsi contro di me.

“Bobby, qui non ci sono cacciatori di daini” riprese a gridare la voce. “Sono cacciatori di uomini e per questo genere di sport la caccia è sempre aperta”.

“Chi sono?” urlai. “Devo saperlo! Dimmelo!”

“Chi lo sa, Bobby? Vengono da molto lontano, forse da altri soli… sì, forse perfino dalla Grande Nebulosa di Andromeda. Bada che non ti prendano, Bobby. Corri, corri!”

D’un tratto non potei più vedere la foresta per colpa degli al­beri. Ognuno di essi era diventato enorme e tutti stavano reclina­ti verso di me con i rami intrecciati, e quando alzai lo sguardo vi­di che quella crudele rete vegetale stava scendendo.

Mi svegliai madido di sudore freddo. Anche il pigiama era ba­gnato. Alzai le lenzuola e mi guardai. Per un attimo ebbi l’im­pressione d’essere tutto imbrattato del fango scuro della foresta.

Strinsi gli occhi, li riaprii e la terrificante visione scomparve. Il sole entrava a fiotti nella camera. Era spuntato un altro giorno. Ero ancora sano di corpo e di mente.

La mamma stava bussando alla porta, ed era stato questo, pro­babilmente, a svegliarmi. — Bobby — chiamò. — Sono le otto meno un quarto. Farai tardi un’altra volta.

— Cosa significa “un’altra volta”, mamma? — risposi. — Quando mai sono arrivato in ritardo a scuola?

Lei aprì la porta ed entrò senza aprir bocca.

— Cosa succede, adesso? — chiesi. — Cos’ho fatto?

— Hai da ridire su ogni mia parola — disse lei. — Sotto questo aspetto stai diventando anche peggio di tuo padre. E per giunta sei testardo. Quando te ne vai in giro per tutta la giornata e io ti chiedo di farmi il favore di prendere un’aspirina, ribatti che non hai mai avuto un raffreddore in vita tua. Quando…

— Ti prego, mamma. Ho fatto un sogno orribile e non ho vo­glia di discutere. Lasciami vestire.

— Secondo te sono molto noiosa, vero, Bobby?

Si mise a sedere sul letto e mi attirò a sé. — Non sono poi una madre tanto cattiva, eh, Bobby? Dimmi la verità.

— Be’…

— A volte non posso fare a meno di irritarmi con te. Sei tal­mente testardo.

— Be’… forse in questo hai ragione, mamma.

— Ti fa bene ammetterlo, vero? Perché non lo fai più spesso? Così non ci sarebbe bisogno di discutere.

— Questo è quello che preferisco in te, mamma. Dici “discute­re” e non “litigare”. Non credere che non lo apprezzi.

— Talvolta ne dubito.

Si alzò prima che potessi rispondere e si avviò verso la porta. — I cereali sono in caldo e il caffè è quasi pronto — disse, con una mano sulla maniglia. — Non metterci troppo a vestirti. Me­no male che non devi anche farti la barba.

— Fra non molto mi toccherà farla — dissi. — E allora il caffè si raffredderà tutte le mattine. Sono molto meticoloso in tutto quello che faccio.

— Per allora forse sarai sposato e te ne sarai andato di casa. Compiango la ragazza…

Uscì richiudendosi la porta alle spalle. Non era certamente la peggiore madre del mondo e a volte mi sembrava la migliore; al­tre volte invece mi irritava al punto da farmi pensare che c’era dell’incomunicabilità fra noi due.

Non mi piace schizzare dal letto, infilarmi i vestiti, neppure sa­pendo di fare tardi a colazione. Preferisco andare alla finestra e respirare l’aria fresca settembrina, guardare oltre il prato e vede­re se mi riesce di scorgere un pettirosso o qualche altro uccelletto raro per Lakeview.

L’osservazione degli uccelli non è uno dei miei passatempi pre­feriti. Ma ho parecchi taccuini di appunti che mi avrebbero fatto guadagnare una pacca sulle spalle dal presidente della locale se­zione della Società Audubon… questo se avessi continuato a pa­gare la quota d’iscrizione.

Di solito sto cinque minuti alla finestra, poi vado ad aprire il cassetto per scegliere, nella mia collezione di camiciole sportive, quella che non metto da più tempo.

Tutto questo mi fa ritardare, è ovvio, e mi sembra di vedere la mamma che borbotta e si preoccupa perché i cereali si raffredda­no, e papà seccato per il suo andirivieni che, come un tornado, gli scompiglia il giornale, mentre passa dalla pagina finanziaria a quella sportiva e poi al notiziario, e non bada se fa rumore vol­tando le pagine o anche se qualcuna scivola a terra.

Quel giorno decisi di stupirla una volta tanto. Non c’erano pet­tirossi né altri uccelletti sul prato, e la camicia sportiva che avevo indossato il giorno prima era ancora pulita. Così la infilai, mi die­di una pettinata e una spazzolata, e scesi cinque minuti dopo es­sermi affacciato alla finestra.

Non saprei spiegare perché un paio di volte al mese prepara le frittelle, oltre al caffè, ai cereali e alle uova strapazzate. Comun­que, quella era una delle mattine in cui papà avrebbe dovuto es­ser felice di sedersi a tavola, e mi spiacque vedere che non diceva niente alla mamma. Come al solito, teneva il giornale aperto da­vanti a sé, e c’erano due pagine sparse sul pavimento.

Quando mi sentì arrivare, depose il giornale e disse: — Salve, figliolo. Bella mattina, eh? — e riprese a voltare le pagine, forse per accertarsi che il meteorologo avrebbe concesso al sole di bril­lare tutto il giorno.

Mamma uscì dalla cucina e gli posò davanti un bricco di panna. — Roger, non hai molto tempo — disse.

Io sedetti davanti al piatto dei cereali, irritato perché anch’io, come mio padre, ero schiavo del tempo. Cosa sarebbe successo se fossi arrivato tardi a scuola? Il signor Dyson mi avrebbe inflitto un compito per castigo? Poco probabile. Mi avrebbe spiegato a tu per tu che l’essere figlio di un banchiere e il possedere un Q.I. molto elevato mi conferivano certi privilegi, ma che io tutta­via gli creavo un problema, perché il ritardare, da parte di un “di­rigente”, sia pure della mia età, non era consono alla posizione.