Выбрать главу

Le vertigini non durarono a lungo. Ma mi avevano fatto pas­sare un momento talmente brutto che mi ricordai del gatto solo dopo aver percorso un altro isolato.

Ero sceso dal marciapiede e stavo attraversando la strada quando mi capitò una cosa ancora più brutta e allarmante del­l’attacco di vertigini. Incominciai a perdere il controllo delle gambe. Diventarono malferme e io non riuscii a proseguire se non barcollando e con la sensazione di perdere l’equilibrio. Ma quella strana sensazione non fu accompagnata da vertigini. Poi mi accorsi che anche le braccia avevano qualcosa d’insolito, perché quando tentai di alzarle per mantenere l’equilibrio — non avevo niente a cui aggrapparmi, ma intuivo che, alzando le braccia, sarei riuscito a reggermi — mi ricaddero inerti lungo i fianchi.

Proseguii vacillando con un rollio così violento che temetti di finire lungo disteso prima di riacquistare l’equilibrio.

Però, non caddi. O, per lo meno, non cadde il mio corpo. Pro­seguii barcollando, e la paura di perdere il controllo di tutti i mo­vimenti m’abbandonò.

Adesso avevo paura di un’altra cosa. Si trattava di un terrore molto più sconvolgente, in quanto mi faceva dubitare della mia sanità mentale. Il mio corpo continuava a procedere, ma io non facevo più parte di esso, ne ero completamente staccato e avevo l’impressione di seguirlo a distanza. Questa distanza aumentava man mano che il mio corpo smetteva di vacillare e si avvicinava al marciapiede ondeggiando appena. Lo guardai salire sulla cordo­nata e allontanarsi lasciandomi dietro di mezzo isolato. Mi trova­vo nel punto dove avevo visto il gatto e i miei movimenti diventa­rono lenti e goffi; inoltre, mentre camminavo mi sembrava che gli artigli — gli artigli, oh Dio! — facessero un rumore stridente sul­l’asfalto.

L’incubo che seguì non ebbe fine se non quando mi ritrovai nella cella della prigione, con lo sceriffo che faceva del suo me­glio per farmi tornare in me. Mi ero già calmato un po’ quando lui m’aveva dato la possibilità di rientrare in possesso del mio corpo, ma lui, questo, non poteva saperlo, e anzi sembrava con­vinto che fossi ancora in stato di shock, il che, sotto un certo aspetto, era vero. Tuttavia riuscii a rispondere a tutte le doman­de che mi rivolse e ricordavo abbastanza di quel che avevo letto a proposito delle amnesie per impedire che mi desse del bugiardo. E sì che moriva dalla voglia di farlo, lo capivo benissimo. Sono certo che non mi credette un momento, quando gli dissi che ave­vo un vuoto di memoria. Ma la venuta di mamma lo spaventò un po’, e io le diedi corda, dal momento che non avevo altra scelta. Se l’università fosse venuta a saperlo, tutta la mia carriera acca­demica avrebbe potuto esserne compromessa, ma il News Chronicle non pubblicò questa parte dell’accaduto, e mamma si decise a rischiare contando sul fatto che l’università si trova in un altro Stato.

Dopo tutto, può darsi che io abbia avuto una specie di vuoto di memoria. Anche adesso non sono del tutto sicuro di quello che successe dopo che mi allontanai da casa Oakham. La mente uma­na è il più grande di tutti i misteri e talvolta può creare illusioni così solide e tridimensionali che sembrano scolpite nel granito. E quello che accadde a me — o che io credetti mi accadesse — non era meno solido, anche se a me sembrava che si fosse verificato in più di tre dimensioni.

Mi sembrò prudente non parlarne allo sceriffo. Ma mi riuscì molto più difficile evitare di raccontare tutto l’accaduto a Bobby Jackson, quando venne a trovarmi nel pomeriggio di ieri. Quel ragazzo ha un certo modo di guardarti, come se fosse in grado di leggerti nella mente, e io finii per fidarmi completamente di lui.

Aveva avuto l’indirizzo dallo sceriffo Anderson, che da più di vent’anni è amico intimo di suo padre, ed ebbi la sorpresa, poco dopo l’una, di veder salire in camera mia mamma per annunciar­mi il suo arrivo. — Hai una visita, Charles. È un ragazzo che dice di avere una cosa molto importante da dirti.

Andai ad aspettarlo in cima alle scale. Un “ragazzo” poteva voler dire tanto un giovane di diciotto anni quanto un bambino, ed io ero curioso di vedere che età avesse. Era molto giovane, non più di tredici o quattordici anni. Non riuscivo a immaginare cosa avesse da dirmi di tanto importante un ragazzetto di quell’e­tà, a meno che non sapesse ch’ero iscritto a varie associazioni universitarie e potevo dirgli come fare per diventare socio di qualche Circolo quando avesse finito le scuole secondarie. A quattordici anni, l’università sembra ancora lontanissima, alla maggior parte dei ragazzi, anche se in effetti la distanza che li se­para è solo di tre o quattro anni.

Lo riconobbi mentre saliva le scale. Ma sicuro! Bobby Jackson, figlio del direttore della banca. Avevo sentito dire che era un ragazzo molto sveglio, a cui si pronosticava una brillante lau­rea sui venti anni.

Dopo averlo salutato lo feci accomodare di fronte a me, da­vanti alla finestra di quello che amo chiamare il mio studio. Fre­quenta l’ottava classe, il che vuol dire che non è molto precoce negli studi, dato che molti dodicenni la frequentano. Ma anche questo non mi stupì, perché molti giovani geni non saltano le classi, e hanno modo di esserne contenti, in seguito.

Comunque, non era venuto da me per parlare dei suoi studi, come scoprii presto.

Anche a lui interessava la casa di Jonathan Oakham, e aveva molte cose da raccontarmi in proposito, e più parlava, più la mia eccitazione cresceva; quando ebbe finito, gli raccontai tutto quel che sapevo.

Gli dissi il motivo che mi aveva spinto ad andare in quella casa, e come fossi rimasto a corto di parole quando la signora Martin mi aveva aperto la porta — lui non era così bambino da non com­prenderne il motivo e non sarebbe stato troppo vecchio neanche se avesse avuto novantatré anni — e di come lei mi avesse sbattuto la porta in faccia, non prima, però, che io avessi sentito suo mari­to chiamarla.

— È sicuro che fosse suo marito? — chiese Bobby Jackson.

— Era la voce di un uomo di mezza età — risposi. — Questa è l’unica cosa di cui posso essere sicuro.

— È proprio sicuro che abbia detto: “Loro sanno quello che devono fare, ma noi dobbiamo raggiungere la caverna prima che sia troppo tardi”?

— Sì, queste sono le parole esatte — confermai. — Non credo che potrò mai dimenticarle.

— E dopo di questo aveva suonato e bussato ancora! Devono essersi spaventati. Abbastanza, probabilmente, per…

Esitò, e io provai la strana sensazione che lui sapesse cosa sta­va passandomi per la mente. Mi parve sicuro che quanto mi avrebbe detto non mi avrebbe spaventato né sorpreso troppo e proseguì: — Io credo che sapessero che quando lei avesse attraversato il prato per andare al cancello avrebbe visto il gatto, che la guardava a sua volta. Ed erano sicuri che lei non avrebbe tro­vato niente di strano vedendo che la bestia la seguiva per strada. I gatti a volte, quando non si trovano bene in una casa, seguono degli estranei con l’intento di trovare una sistemazione migliore. Ai Martin non ci volle molto per attuare…

Esitò ancora una volta, ma io l’invitai a proseguire con un cenno.

— Be’… un trasferimento.

— Dall’uomo al gatto e viceversa. È questo che vuoi dire? — chiesi, con la certezza che lui “sapeva” cosa avrei detto, ancora prima di aprire bocca. — Ma perché, Bobby? Cosa speravano di ottenere?

— Non lo so bene — rispose lui. — Forse la sua distruzione. Quando capitò a me sentii che correvo un terribile pericolo. E non so cosa sarebbe successo se la signora Martin non mi avesse fatto uscire da quella situazione.

— Nel mio caso è merito dello sceriffo — dissi. — Quando die­de un calcio al gatto… — Mi sentii stringere la gola, e non riuscii a dire altro.

Bobby Jackson venne in mio aiuto. — Lo so — disse. — Quel­lo a cui diede un calcio facendolo volare oltre il marciapiede non era un gatto. Tuttavia lei non ha sentito dolore. Ne sono certo. Il trasferimento non era fisico, ma poteva esserlo.