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Forse, se mi ci fossi messo, sarei riuscito a rompere l’incantesi­mo prima che fosse stato troppo tardi. Ma lei sorrideva annuen­do, col bicchiere alzato, e ci volle ben poco perché la paura che serpeggiava nel mio cervello lanciasse un segnale d’allarme.

Quando il segnale arrivò, i suoi occhi cominciarono a ingran­dirsi aprendosi come enormi petali scuri di un fiore, e io scoprii che non potevo muovere le gambe. Anche le braccia erano iner­ti, appesantite.

I suoi occhi continuarono a diventare sempre più grandi, fin­ché il resto della faccia non fu che una macchia indistinta. Per un istante mi sembrò che riempissero tutta la stanza, diventando sempre più enormi, tanto che mi sentii inghiottire da quell’esame spietato.

Per un attimo lottai perché quegli occhi non infrangessero tut­ta la mia resistenza e demolissero l’unica cosa a cui potevo anco­ra aggrapparmi: la consapevolezza della mia identità. Lottai per non perdermi completamente in quell’immensità di iridi scintil­lanti, per rimanere Robert Jackson, figlio del presidente di una banca, un ragazzo con una sua volontà e una sua intelligenza che era deciso a combattere per rimanere quel che era finché un or­rore inimmaginabile non lo costringesse a rinunciare alla lotta.

Fu una battaglia perduta, perché d’un tratto gli occhi scompar­vero e io mi trovai avvolto in un’enorme distesa blu ondeggiante. Non ero più Robert Jackson. Ero una fragile zattera alla deriva su di un oceano sconfinato. Le correnti mi sospingevano qua e là, e le onde si rompevano contro di me schiacciandomi con il loro tenibile peso e facendomi soffocare.

Poi incominciai ad appesantirmi, ad affondare sotto le onde, molto lentamente. Immense creature d’ombra mi passavano ac­canto veloci: mostri cornuti degli abissi con tentacoli iridescenti che mi si avvicinavano pericolosamente e poi sfrecciavano via con un lungo fruscio strascicato. E c’erano anche altri rumori. Un rintocco triste, come se una campana lontana suonasse a morto, e un urlo acuto, ma lontano. E io continuavo ad affon­dare.

— Bobby, Bobby, svegliati! — Qualcosa mi scuoteva per le spalle, ma io non potevo vederla. Potevo solo sentire la sua voce che mi supplicava, che mi incitava a tornare alla superficie di quel mare profondo e agitato. Mi incitava a tornare me stesso: Bobby Jackson.

Sentivo le sue mani che mi trattenevano per le spalle mentre io mi reclinavo sul tavolo, col bicchiere ancora stretto in mano.

Poi, la vidi… ma non come Bobby Jackson. Mi sembrava di es­sere al lato opposto della cucina, vicinissimo alla porta e la vede­vo benissimo, vicino al tavolo, che scuoteva il ragazzo e lo prega­va di tornare me stesso.

Io ero sulla porta e strisciavo verso di lei come un animale. Mi muovevo lentamente, in modo subdolo e, mentre camminavo, sentivo come un rumore graffiante. Ma lei non guardava verso di me. Tutta la sua attenzione era concentrata sul ragazzo vicino al tavolo e quel ragazzo non ero più io!

Come avrei potuto essere Bobby Jackson se lo stavo guardan­do da cinque metri di distanza? Era identico a me. Su questo non c’erano dubbi. Ma era come se fossi stato staccato dal legame d’i­dentità che mi aveva fatto pensare, sentire e agire come Bobby Jackson. Era come se avessi assunto un’identità completamente nuova e diversa. Anche se riuscivo a ricordare che fino a pochi attimi prima ero Bobby Jackson, stavano destandosi in me nuove sensazioni che mi riempivano di orrore.

D’improvviso una lieve corrente che proveniva dallo spiraglio della porta mi passò sulla schiena, e io provai una sensazione nuova e terrificante. Trattenni il fiato e mi accucciai ancora più in basso… Stavo accucciato! La paura che mi faceva tremare si rive­lò appieno affrontandomi con occhi verdi immobili, fissi in un in­cubo crepuscolare che era peggiore dell’oscurità più completa. La porta della cucina era socchiusa ed era entrato furtivamente un gatto, e quel gatto ero io. Ero diventato, sia pure in parte e in un modo frammentario, da incubo, il gatto della signora Parker. Quel diabolico animale, incredibilmente perfido, era riuscito, chissà come, a penetrare nella mente di Bobby Jackson, a scal­zarne l’identità; e quel che io provavo adesso era la consapevo­lezza d’essere un gatto. Come potevo dubitarne?

Non so che cosa mi abbia salvato. Forse l’incantesimo di cui Helen Martin si era servita per farmi abbandonare l’ultimo appi­glio alla realtà aveva avuto un attimo di cedimento, perché ora stava facendo degli sforzi ancora più frenetici per farmi tornare il ragazzo seduto al tavolo. Era come se avesse perso il senso della misura, e ora, sconvolta e sbigottita per quel che aveva fatto, cer­casse di porvi rimedio.

E ancora non so cosa o chi mi abbia salvato. Se gli sforzi di He­len Martin o forse quella parte della mia mente che non si era la­sciata coartare, una parte ancora presente a se stessa che conti­nuava a gridarmi, con urgenza disperata, che un essere umano non poteva essere trasformato in un animale inferiore.

Forse fu questo, e non i disperati tentativi di Helen Martin, a “ridarmi” coscienza di me e del mio corpo.

Mi mossi e aprii gli occhi, e vidi Helen Martin, con un’espres­sione di sollievo e le lacrime agli occhi, così umana, che per un momento mi parve un’infermiera, gentile e comprensiva, con la divisa bianca inamidata. Un’infermiera che mi passava una mano morbida sulla fronte, e facendomi scivolare il termometro sotto la lingua, mi sussurrava: “Adesso riposati, Bobby. Non devi preoccuparti. Va tutto bene”.

Poi, all’improvviso, tutto tornò reale, completamente reale, l’opposto sia dell’incubo sia del sogno rassicurante. Helen Martin disse con voce calma e comprensiva, ma perfettamente naturale: — Dev’essere stato il sole, Bobby. Un colpo di calore. Ti sei don­dolato per un pezzo sul cancello, eh?

— Sì… credo di sì — mentii. — Ed è stata una sciocchezza per­ché ero già stato al sole tutto il giorno. Stamattina ho giocato a pallacanestro per quasi due ore.

— Allora tutto si spiega.

— Non ci ho visto più, per un momento — dissi.

Lei mi batté la mano sulla spalla, e temetti che mi dicesse: “È meglio che tu vada a sdraiarti un momento in salotto, Bobby. Non devi andartene finché non starai meglio”.

Non volevo rimanere un secondo di più in quella casa. Non vo­levo nemmeno che mi pregasse di restare, perché era pericoloso anche ascoltare la sua voce. Adesso ne ero sicuro.

Non avevo mai avuto tanta paura. Non mi vergogno ad am­metterlo. Ero spaventato come dicono che succeda ai selvaggi di fronte a quello che non conoscono, ai sussurri della foresta, agli antenati morti dalle facce spettrali e il passo strascicato.

Solo… che era peggio. Era una cosa sconosciuta, più grande e infinitamente meno umana, come se un vento di morte fosse sce­so dai lontani spazi e mi soffiasse gelido addosso.

La mano della donna si strinse affettuosa sulla mia spalla, e lei disse, in tono sinceramente preoccupato: — Bobby, che c’è? Per­ché mi guardi così?

Naturalmente fingeva, recitava, e mancò poco che tornassi a cedere. Chissà, forse avevo già ceduto, e adesso era ormai trop­po tardi.

Ma mi rifiutai di pensarlo. M’alzai, avvicinandomi alla porta, voltandomi solo una volta a guardarla come per dirle: “Non mi sento bene”, perché la mia partenza sembrasse meno brusca e più naturale, date le circostanze.

Chi può aspettarsi una risposta da un bambino che si è appena ripreso da uno svenimento dovuto a un colpo di sole e vuol corre­re subito a casa? In simili circostanze, un ragazzo desidera solo stare con la sua famiglia. Mi augurai che capisse quali avrebbero dovuto essere i miei sentimenti e che mi lasciasse andare senza costringermi a mentire ancora.

Così fu. Uscii e attraversai il prato correndo come se ne andas­se della mia vita, e solo allora sentii la porta chiudersi sbattendo, come se all’ultimo momento lei avesse capito la verità e si fosse arrabbiata di avermi lasciato andare via vivo.