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— L’ho notato anch’io, papà — intervenni.

Lui mi guardò con aria di rimprovero come se una dichiarazio­ne tanto precipitosa di accordo fosse infantile e indegna di me, come infatti era. Papà mi conosceva molto bene. Si accorgeva sempre quando io cercavo di sapere qualche cosa e, nel tentati­vo, mi dimostravo maldestro.

Provai un approccio. — Papà — dissi.

— Sì, figliolo?

— Credi davvero che lavori in un ufficio in città? Mi sembra strano che nessuno l’abbia mai visto entrare o uscire da un uffi­cio.

— Non saprei — rispose papà. — Quando ha aperto il conto ha dato solo l’indirizzo di casa Oakham. Non è necessario dare referenze di affari, quando si apre un conto in banca. Per lo me­no non è obbligatorio, qualora sia possibile dare altre informa­zioni sul proprio conto. Il modulo da compilare per aprire un conto è semplice come l’ABC. Bisogna scrivere il nome dei geni­tori, l’indirizzo e firmare. Trattandosi di un conto corrente fac­ciamo poche domande relative alle possibilità finanziarie del ri­chiedente, al fatto se ha conti presso altre banche, eccetera. E se è in grado di dare un indirizzo d’affari e un paio di referenze, tan­to meglio. Ma non insistiamo per avere il suo indirizzo di lavoro.

— Ha aperto un conto corrente? — chiesi.

— Sì, e abbastanza cospicuo. Un grosso deposito è indizio di per se stesso di una solidità finanziaria e noi riteniamo per garan­tito che chiunque depositi una grossa somma in banca non se la sia procurata in modo disonesto. Una banca non è l’ufficio dello sceriffo.

— Ha depositi anche in altre banche? — insistetti.

Papà si accigliò e mi guardò insospettito. — Bobby, cosa c’è? — Mi stai sottoponendo a un interrogatorio. Perché?

— Niente, papà. Non è importante.

— Non capisco nemmeno perché debba interessarti. Ma, se vuoi proprio saperlo, aveva depositi in due banche di Midland Beach, dove ha vissuto per tre o quattro anni prima di venire qui. Ma io non ho alcuna intenzione di prendere l’autobus per andare a Midland a chiedere informazioni sul suo conto. Il signor Plummer è mio amico e non mi sembra il caso di far venire a un colle­ga direttore di banca l’idea che sono un po’ matto. Lo stesso dica­si per il signor Streeter della Midland Risparmi e Prestiti.

Papà cominciava a innervosirsi e perciò avrei fatto meglio a la­sciar perdere. Invece continuai imperterrito.

— Perché non l’hai messo con le spalle al muro quando ha aperto il conto? — chiesi. — Non avresti potuto chiedergli che la­voro fa?

— Non ne ho avuto l’occasione. È stato Murch a trattare con lui. Ricorda solo di avergli fatto riempire il modulo e del collo­quio non ricorda un cavolo.

— Ti prego, Roger — disse la mamma. — Devi proprio parla­re così davanti a Bobby?

— Sì, devo. Altrimenti non mi rispetterebbe. Sa che mi sta fa­cendo un sacco di domande balorde per nessun motivo se non perché mi è capitato di dire che nel contegno di Martin c’è qual­cosa che ha risvegliato la mia curiosità. Non è vero, figliolo?

— Sicuro — risposi. — Papà è un essere umano, mamma. Co­sa diavolo…

Mamma si affrettò a distogliere lo sguardo, perché non trovava divertente quel che dicevo e probabilmente non lo era. Ma dove­vo difendere il diritto di papà di ricorrere a qualche parola un po’ forte quando le circostanze lo richiedevano. Era anche un mio di­ritto.

E poi condividevo le sensazioni di papà. La stranezza, la fred­dezza di Martin, la sua completa diversità dagli altri abitanti di Lakewìev. Anzi, la mia sensazione era molto più profonda, a causa di ciò che sapevo. Mi ero dondolato su un cancello, ero sta­to invitato a bere una limonata ghiacciata ed ero precipitato in una specie di viaggio piuttosto sgradevole e quantomeno strano, diverso. Infine, se c’era del mistero nei Martin, la chiave per sco­prirlo era sicuramente più vicina a me che non a papà.

3

John Dyson

I ragazzi difficili! Il motivo non è noto ma certo che al giorno d’oggi non c’è scuola dove non ci sia qualche ragazzo difficile. In­vece a me piace pensare che, nascosta in una vallata verde e pie­na di pace, con picchi bianchi che scintillano in lontananza, c’è una scuola dove s’impara per il puro piacere d’imparare e l’inse­gnante è considerato una guida, un consigliere, un amico.

Chissà, forse un giorno prenderò un bastone di frassino e m’avvierò per le colline alla ricerca di quella scuola. Sia ben chia­ro, comunque, che non mi ritengo una vittima di un’ingiustizia né che voglio tornare indietro nel tempo e tanto meno auspico dra­stici mutamenti del sistema educativo.

Quando raccoglieranno le mie ceneri in un’urna, qualcuno, convinto del contrario, potrebbe servirsene per una difesa postu­ma in un articolo intitolato “Come le delusioni della scuola me­dia hanno frantumato le speranze dei nostri migliori insegnanti”.

Un simile necrologio non mi piacerebbe e, nella specifica cir­costanza, non sarei in grado di rispondere.

In effetti non mi sono mai considerato né un insegnante parti­colarmente buono, né particolarmente cattivo. Mi piacciono i bambini. Cerco di far del mio meglio per capirli e, nel mio lavo­ro, al pragmatismo professionale, unisco quel po’ di saggezza che sono riuscito a raccattare qua e là nel corso degli anni.

Per lo più sono un autodidatta. Otto anni fa ho seguito i corsi per corrispondenza di un’università e sono riuscito ad afferrare l’ultima laurea in psicologia pedagogica che conferivano in quella sessione. Come poi riesca nel mio lavoro, questo è un problema che non ho ancora risolto; comunque agli assertori del detto che saggezza e conoscenza sono rami gemelli della stessa robusta quercia, io propongo di farsi un intero anno scolastico cercando di convincere dei quattordicenni a moderare i loro impulsi ag­gressivi sviluppando al tempo stesso la propria creatività.

Non posso dire che Bobby Jackson sia un ragazzo difficile, in quanto il suo comportamento in classe non mi ha mai creato delle difficoltà. Ma quando deve svolgere a casa un compito che tiene occupati i ragazzi fino a notte (un paio di volte al mese, controvo­glia, divento un tiranno a questo proposito) ho sempre la sensa­zione che a lui basti un’ora per svolgerlo, e bene. E non solo i suoi compiti a casa sono scrupolosamente esatti e ordinati, ma sembrano anche volutamente “faticati”.

Non saprei definire con esattezza cosa voglio dire con quel “fa­ticati”, ma me ne accorgo invariabilmente. Se un ragazzo è uno schianto in matematica o eccelle in inglese, nei compiti a casa, avendo più tempo a disposizione che in classe, può dare il meglio di se stesso, senza tensione, senza patire. E l’insegnante “sa” quando un suo allievo “fatica”. E io so che Bobby non “fatica”.

Tutte le volte che incontro lo sguardo di Bobby Jackson, mi sembra che dica: “Vedi! Non riesci a trovare niente da ridire in tutto quello che faccio. Però sei convinto che ti inganni, e ti tor­menti per questo. Ma perché ti preoccupi tanto?”

A volte sono lì lì per cedere alla tentazione di chiamarlo alla cattedra e dirgli, da uomo a uomo: “Via i guantoni, Bobby. Io ti sono amico e tu lo sai. Ma mi nascondi qualcosa e questo non va bene, guasta i nostri rapporti. Non c’è niente di male se ricorri a delle scorciatoie dal momento che impari e riesci bene. Ma ti ser­vi di questo come di un motivo di antagonismo fra noi due. È co­me se tu giocassi una partita contro di me e io, onestamente, sen­to di meritare un trattamento migliore”.

Ma a che servirebbe?

Nonostante Bobby Jackson sia solo un ragazzino di quattordici anni, sempre spettinato, che non dimostra più della sua età, può chiamare in appoggio una riserva di dignità e riserbo degni di un grande dirigente coi capelli bianchi. Mi par di vederlo mentre, con un sorriso triste, mi fa capire, scuotendo la testa, che lui non porta i guantoni, e che io non ho modo di provare l’esistenza del sia pur minimo antagonismo fra noi due… almeno da parte sua.