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Accettare quanto è impossibile cambiare, a volte, è una cosa che si fa a malincuore, ma sicuramente è il principio della saggezza, come potrebbe dirvi qualunque filosofo con la luna di traverso.

Tutto questo mi riporta al compito svolto a casa da Bobby. Il tema che ho dato ieri era piuttosto insolito, nel suo genere. Il programma spaziale è un argomento che un insegnante non può ignorare, anche se preferirebbe dedicare i suoi momenti liberi al­la lettura della poesia elisabettiana o a Walden Pond, lasciando sullo scaffale libri tecnici.

Così decisi di vedere come se la sarebbe cavata la classe se avessi proposto loro un immaginario viaggio insieme a me su Marte, a bordo di un’astronave abbastanza grande da ospitare tutta la classe. “Con me” invece che da soli, perché quando si dà ai ragazzi un tema che è un po’ una sfida, l’insegnante è sempre presente, e aleggia nello sfondo o come un consigliere amichevo­le, o come una nemesi persecutrice alla ricerca di errori di sintas­si o grammaticali. Talvolta si accendono dei conflitti perché loro non riescono a decidere fino a che punto sarò tollerante e com­prensivo nel correggere i compiti. Quando capita, mi concedono il beneficio del dubbio e assumono l’atteggiamento dello “stare­mo a vedere”.

Ero sicuro che almeno un terzo dei temi avrebbero meritato l’insufficienza e rimasi piacevolmente sorpreso nello scoprire che invece erano tutti discreti. Evidentemente l’idea di andare nello spazio, a esplorare mondi sconosciuti, rende nove ragazzi su die­ci più attenti e fantasiosi, allarga i loro orizzonti e li rende capaci di brillare, sia come oratori in classe sia come scrittori. In effetti nove o dieci composizioni erano così buone da rafforzare la mia convinzione che, allorquando ci soffermeremo a considerare l’ef­fetto dell’Era Spaziale sul pensiero umano, dovremo rivedere tutto il nostro ordine di idee.

Ma per quanto alcuni temi fossero eccellenti, quello di Bobby fu l’unico che lessi tre volte, con sempre crescente ammirazione, prima di segnare un bel dieci.

Stavolta aveva superato se stesso, s’era abbandonato total­mente alla fantasia con la volontà precisa di sbalordirmi. E c’era riuscito. Sotto un certo aspetto, nonostante la dovuta ammirazio­ne, la lettura del tema non fece che rafforzare la mia opinione nei suoi riguardi. Qualunque sia il valore che un insegnante attribui­sce a se stesso, la presenza in classe di uno studente al quale piace giocare a scacchi con lui è tanto un ostacolo quanto una trappola. I quattordicenni imitano quello che non riescono a capire e basta una minima espressione a tradire il pensiero dell’insegnante.

Non era difficile immaginare quello che avrebbero pensato. “Se Bobby Jackson riesce a incastrarlo e a mandarlo in bestia con le sue domande pazze, perché non possiamo riuscirci anche noi?”

Ovviamente le domande di Bobby erano tutt’altro che pazze. Ma come si poteva pretendere che si rendessero conto che la maggior parte delle cose di cui parlava alzandosi dal banco erano al di fuori della loro comprensione?

Questa volta dovevo essere ancora più cauto del solito per riuscire a mantenere la calma esteriore. Bobby aveva fatto una descrizione classica di come doveva essere Marte. Aveva ana­lizzato tutti gli aspetti delle fotografie scattate dalla sonda spa­ziale inviata su Marte nel 1965 riempiendo le lacune con una lo­gica che, almeno a mio vedere, era irrefutabile, e così facendo s’era lasciato indietro un bel pezzo gli esperti che veleggiavano ancora nel limbo.

Aveva descritto esattamente il paesaggio che il primo astro­nauta destinato a metter piede su Marte avrebbe visto, e la de­scrizione non era cervellotica: si capiva che il ragazzo sapeva di cosa parlava. Se quell’astronauta fosse stato lui, la descrizione non avrebbe potuto essere migliore.

Dieci per Bobby, dunque, e mentre leggevo e classificavo il suo tema capii dalla sua espressione che sapeva cosa mi stava passando nella mente.

“Benone, giovanotto” dissi tra me. “Appena finita l’ora avre­mo una spiegazione a quattr’occhi. Sei troppo brillante per esse­re vero. Però sei vero e il paradosso deve essere risolto, altrimen­ti io finirò col prendere tranquillanti otto volte alla settimana”.

Aspettai finché il grande orologio sulla torre del supermercato di Piazza Anderson suonò le tre (suona invariabilmente pochi se­condi prima della campanella della scuola), e non appena i ragaz­zi cominciarono a uscire incrociai lo sguardo di Bobby Jackson e gli feci segno di restare al suo posto.

Non ci guardammo più finché l’aula non fu così silenziosa che si sentivano le fronde degli alberi scosse dal vento frusciare con­tro i vetri delle finestre. Era una burrascosa giornata d’autunno, e mi sembrava di vedere gli altri scolari giocare al mondo nel cor­tile della scuola, con lo spensierato abbandono di piccoli selvaggi che hanno avuto il permesso di arrampicarsi sugli alberi della fo­resta e di cacciare in libertà.

Non so il motivo di questo paragone, né perché li immaginassi intenti a quel gioco, so solo che mi sembravano dei primitivi, se li confrontavo con Bobby Jackson. E Bobby in quel momento mi stava guardando come se avesse letto tutti i libri della biblioteca di Elm Street e si stesse chiedendo come avrei reagito se mi aves­se manifestato l’intenzione di scriverne qualcuno anche lui, tanto per riempire gli scaffali.

Finsi di dover sistemare le carte sulla scrivania per un paio di minuti. Quindi lo chiamai: — Bobby — dissi — devo dirti che il tuo tema mi ha piuttosto sbalordito. Non ho voluto discutere con te davanti alla classe, forse è stato sciocco da parte mia, ma… be’, mi sembrava sleale lodare solo uno di voi dal momento che tutti i temi sono talmente superiori alla media abituale che non mi sono ancora riavuto dallo shock.

Mi sentii fiero di me nel vedere con quanta rapidità si alzò per venire alla cattedra con l’aria di avere compreso appieno. M’ero mostrato affabile quel tanto che era necessario e gli avevo gettato l’esca preliminare adatta. Confessargli che gli altri studenti mi fa­cevano stupire quando superavano se stessi era una cosa che ca­piva e condivideva. Quando un insegnante si scopre fino a quel punto corre un certo rischio.

Ma io ero sicuro che con Bobby quel rischio era minimo. La sua intelligenza e la sua assennatezza gli consentivano di rispetta­re una confidenza e di rendersi conto che anche un insegnante può dimostrarsi comprensivo senza che questo pregiudichi la sua dignità o metta in discussione l’ordine della gerarchia scolastica.

— Le è piaciuta la conclusione del mio componimento? — mi chiese tutto premuroso e senza la minima traccia di antagonismo nella voce.

— Mi è piaciuta moltissimo — risposi. — Verso la fine hai dato briglia sciolta alla fantasia, ma non è un male.

Aveva un’espressione talmente compiaciuta che mi sentii col­pevole di aver fatto ricorso a una strategia complessa per trattare con lui. Dovevo fargli capire che non l’avevo trattenuto solo per fargli i complimenti.

— Bobby — dissi, protendendomi verso di lui e fissandolo ne­gli occhi. — Vorrei che, almeno una volta, fossi completamente sincero con me. Quanto tempo hai impiegato per completare la tua analisi marziana? Due ore… tre?

La sua risposta non fu così spontanea come avevo sperato. Spinse ancor più avanti la mascella e sentii nella sua voce una sfu­matura di antagonismo.

— Non guardavo l’orologio — disse — ma credo di aver impie­gato circa quattro ore.

— Ma è tutta farina del tuo sacco — insistetti. — O hai consul­tato qualche libro mentre svolgevi il tema?

— Non sempre occorre farlo — disse lui, in tono di sfida.

— Può darsi di no, Bobby — dissi. — Un astronomo di Monte Wilson dotato di una memoria formidabile può scrivere una rela­zione su Marte accurata ed esauriente come la tua senza consul­tare testi specializzati e controllare dati. Ma, alla tua età, un simi­le livello intellettuale è rarissimo.