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— È un errore mostrarsi troppo scettici, signor Dyson — con­tinuò lui. — Quando tanta gente…

— Un momento, Bobby — lo interruppi. — Non molta. Non ingannarti su questo punto. Ti sei mai chiesto quali sarebbero i sentimenti della stragrande maggioranza della gente se fosse con­vinta davvero di essere osservata e spiata giorno e notte da visita­tori provenienti da un altro mondo? Ipotizzare che ciò sia possi­bile, può anche non essere dannoso, ma averne l’assoluta certez­za, accettare la cosa come parte integrante della vita…

Lo guardai con aria accusatrice, nella speranza che si rendesse conto di quanto mi fosse difficile credere che poteva aver parlato dei dischi senza aver preso in considerazione quell’aspetto del problema.

Forse invece l’aveva fatto, e l’aveva taciuto, per non scoprirsi troppo.

— Capisci, Bobby? — continuai. — Ammettere che lassù nel cielo c’è qualcuno, irraggiungibile e sconosciuto, che ci osserva, ci costringerebbe a vivere in uno stato di continua incertezza, con la terrificante sensazione di essere completamente alla mercé di una intelligenza sconosciuta dotata di talenti imperscrutabili; un’intelligenza capace di individuare il minimo cambiamento nel­la nostra vita quotidiana. Come potremmo vivere in modo nor­male con questa specie di incubo sopra la testa? E poi…

I vetri delle finestre vibravano in continuità, e il sole era nasco­sto dietro nuvole cariche di pioggia. C’è qualcosa di tetro in un’aula vuota dove un insegnante rimane solo con i suoi pensieri. La presenza di Bobby avrebbe dovuto servire ad alleviare un po’ quella tetraggine. Invece no. Perché, mi chiesi, gli ho chiesto di restare, quando alla fine della conversazione Bobby è più che mai un enigma per me?

Ebbi la sensazione che non sarei venuto a capo di niente, che lui avrebbe segnato un punto a suo vantaggio e che sarebbe usci­to dalla scuola con un cenno di sfida, forse perfino seccato con me per averlo trattenuto oltre l’orario, col temporale che si ad­densava e lui che, non avendo l’ombrello, si sarebbe inzuppato tutto. Questo se avesse piovuto. Mi augurai che non piovesse.

Bobby stava osservandomi con aria interrogativa, come se non riuscisse a capire perché mi fossi interrotto nel bel mezzo di quel­lo che stavo per dire. Prolungai per un momento il silenzio, risi­stemando i fogli del suo componimento come se fosse un mazzo di carte: questo perché capisse bene che non mi lasciavo metter fretta da lui.

— È già abbastanza brutto vivere con la minaccia della guerra termonucleare — continuai. — E cosa credi che succederebbe se tutta l’umanità si convincesse d’essere sottoposta a una sorve­glianza non umana? Chi più avrebbe fiducia nei progetti per il fu­turo, chi potrebbe ingannarsi pensando di poter continuare la so­lita vita: amare, creare, odiare e, sì, anche morire? Dove finireb­bero la libera scelta, il libero arbitrio, le libertà materiali e spiri­tuali del genere umano?

— Non credo che tutto si fermerebbe, signor Dyson.

Se la fine del mondo fosse giunta in quel momento la fiduciosa asserzione di Bobby non avrebbe potuto essere demolita più istantaneamente. Il rombo del tuono fu come l’esplosione di una decina di bombe tutte insieme, e il bagliore del lampo fu il più violento che avessi mai visto. E non svanì quando si spense il fra­gore del tuono, ma saettò nell’aula.

Un paio di ramificazioni si ruppero e sfrecciarono verso il soffitto percorrendolo un paio di volte senza che la loro incande­scenza diminuisse. Il resto si trasformò in un fulmine globulare che avanzò roteando verso Bobby, restando sospeso per un terri­bile momento sopra la sua testa.

Fu allora che tutto parve fermarsi, il vento che aveva fatto vi­brare i vetri della finestra, il battito violento del mio cuore, e lo stesso Bobby. Non solo era terrorizzato. Nella sua rigidità c’era un che d’innaturale, e innaturale era anche il pallore del suo viso.

Sembrava trasformato in una statua di pietra incapace di muo­versi e di gridare. Solo gli occhi si muovevano, guardando verso l’alto, sebbene fossero abbagliati dalla radiosità della palla di fuoco che, come un’aureola abbagliante, stette sulla sua testa per un lungo, eterno minuto. Poi scomparve. Non si allontanò, sce­mò riducendosi a un puntino luminoso, e svanì in uno sbuffo di fumo con un lieve sfrigolio, come la fiamma di una candela spen­ta tra le dita bagnate.

Bobby tornò lentamente alla vita. Negli occhi dilatati si leg­geva un immenso terrore che non svanì con la scomparsa del fulmine. Tremava violentemente ed era così vicino a un collasso che se non mi fossi alzato prontamente a sorreggerlo sarebbe caduto ai piedi della cattedra.

Aprì e richiuse le labbra, e il flebile sussurro che riuscì a emet­tere somigliava al singhiozzo di un bambino terrorizzato sperdu­to in un bosco. Poi fu scosso da un violento brivido e pronunciò alcune parole distinte. Bobby chiedeva aiuto con tutto il suo infi­nito terrore, con tutta la sua disperazione e io non potei fare altro che annuire e ancora annuire in un altrettanto disperato tentativo di rassicurarlo.

— Loro devono averlo saputo… ci stavano osservando. Non era un fulmine… — sussurrò Bobby.

Ma io non sapevo cos’altro avrebbe potuto essere. Non esiste nulla di più capriccioso del comportamento di una potente carica elettrica quando l’atmosfera funziona da conduttore. Un fulmine può distruggere un piccolo oggetto di metallo, zigzagare in tutte le direzioni e risparmiare un imponente complesso di macchine. C’è anche gente che è stata “colpita” dal fulmine e, pur avvolta in un’acceccante bagliore, non ha riportato il minimo danno.

No, non erano le parole di Bobby a turbarmi tanto, ma qualco­sa di diverso. Le sue parole mi avevano stupito e allarmato, ma non in rapporto a quello che era successo. Il fulmine poteva essere trascurato, considerandolo alla semplice stregua di un’insolita manifestazione dell’assoluta imprevedibilità delle scariche elettriche temporalesche. Ma non potevo assolutamente trascurare la reazione emotiva di Bobby.

Per un momento si era trovato in grave pericolo e poteva dirsi fortunato di essere vivo. Passato lo spavento, avrebbe dovuto es­sere sopraffatto dal sollievo. Invece il suo terrore aumentava sempre più, e l’aveva indotto a pronunciare parole di cui non riu­scivo a capire il senso.

Che lo spavento gli avesse sconvolto la mente? A chi aveva al­luso con quel “loro”? Fuori si era fatto molto buio, e io m’aspet­tavo che da un momento all’altro cominciasse a piovere. Perché non aveva aspettato lo schianto di un altro tuono prima di dire che era successo qualcosa di anormale?

Tremava tutto e stringeva forte il mio braccio, come se si aspettasse di sentir suonare le trombe del giudizio universale. Se fosse scoppiato un incendio nell’aula, non avrebbe potuto essere più atterrito.

— Bobby — lo pregai — cerca di dominarti. Stai bene, non hai niente da temere…

Trascorsero parecchi minuti prima che dai suoi occhi scompa­risse quell’espressione di terrore. Continuava a fissare la finestra e, sebbene non potessi esserne sicuro, avevo la sensazione che sperasse, sebbene con paura, che un improvviso scroscio di piog­gia ponesse fine all’incertezza.

Piovesse e tuonasse pure! Era l’unico modo questo di ridurre entro uno schema normale il fulmine che col suo comportamento imprevedibile aveva quasi ucciso un ragazzino spaventato. Se fosse rimasto un fenomeno isolato sarebbe stato più inquietante, anche se lampi e tuoni senza pioggia non sono un fenomeno poi tanto insolito.

Non piovve, e dopo alcuni minuti la luce aumentò. Ma ormai non me ne preoccupavo più, perché in Bobby era sopravvenuto un grande cambiamento. Era riuscito a vincere la paura e mi guardava come se si vergognasse di essersi lasciato spaventare da una cosa così trascurabile come un incontro faccia a faccia con la morte.

Mi ricordai quello che aveva detto e, senza cercare di nascon­dere il mio turbamento, gli chiesi: — Cosa significa “Loro devo­no averlo saputo… ci stavano osservando?” L’hai detto prima.