Выбрать главу

Lucas passò così il primo giorno a New York con una solida base sotto ai piedi, ma da solo. Si disse che la città avrebbe potuto essere migliore, ma che l'occasione era buona, e doveva sfruttarla. Si sentì un po' isolato, ma capì che la faccenda dipendeva esclusivamente da lui.

In un altro anno, con un'estate diversa, probabilmente avrebbe trovato facilissimo adattarsi alla vita della città. Ma quell'anno, no, quell'anno nessuno aveva trovato riposo, dopo la frenetica vita dei mesi invernali, e tutti, tutti i newyorkesi, dai camerieri ai tassisti, dagli edicolanti ai bigliettai, sembravano ricoperti da una maschera impenetrabile.

Con un altro zio, avrebbe potuto entrare in una famiglia simile a quella che aveva lasciato. In un'altra casa, avrebbe potuto fare amicizia con i vicini di camera. Ma, a causa delle circostanze, per un anno e mezzo lui avrebbe dovuto vivere da solo, prendendo le sue decisioni. Comprese la situazione, e la sua mente logica e metodica cominciò a cercare il tipo di vita del quale lui aveva bisogno.

L'Espresso di Lucas senior era una grande sala, con un bancone a un'estremità, sul quale si trovava la macchina del caffé espresso, e nel quale venivano conservate le tazze pulite. C'erano grandi tavolini pesanti, lavorati a Venezia e a Firenze, alcuni con il piano di marmo e altri senza, e alle pareti si alternavano i quadri moderni e antichi. Su ogni tavolino si trovava una zuccheriera, oltre a una lista dei vari tipi di caffé serviti, e degli altri prodotti che il locale offriva. Le pareti erano di una tinta giallo-crema, e le luci erano tenui. Gli amplificatori diffondevano una musica di sottofondo dolcissima… e alcuni busti marmorei, donati dai clienti più fedeli, facevano bella mostra di sé negli angoli.

La macchina del caffé espresso dominava la sala. Quando Lucas senior aveva aperto la trattoria, aveva acquistato una macchina moderna e funzionante, anche se di seconda mano, lucida e dall'aspetto efficiente, con il nome del produttore “ATALANTO” in bella evidenza sulla superficie metallica. Si trattava di un modello elettrico; ma dopo il rinnovamento del locale, la macchina era stata sostituita da un vecchio modello a gas. Si trattava di un grosso cilindro verticale, che terminava a campana, ai lati del quale si trovavano due volti di cherubini, e sulla “campana” si trovava un'aquila rampante. La macchina era elegante, quasi barocca, con tutte le sue decorazioni elaborate; dominava la sala, dal bancone, emettendo in continuazione getti di vapore. Da mezzogiorno alle tre del mattino, tutti i giorni escluso il lunedì, turisti e frequentatori abituali affollavano l'Espresso di Lucas sr. con una punta massima di affluenza verso mezzanotte; quasi tutti preferivano il cappuccino all'autentico espresso, che è piuttosto amaro, e tacevano di colpo non appena la macchina cominciava a sibilare.

Oltre a Lucas, c'erano altri quattro impiegati all'Espresso di Lucas sr.

Carlo, il direttore, era un tipo taciturno, dal fisico robusto, sui trentacinque anni, dello stesso stampo di Lucas senior (e questo era stato il motivo della sua assunzione). Manovrava la macchina, si occupava della cassa, e compiva un lavoro generico di supervisione in tutti gli altri campi. Insegnò a Lucas come si doveva macinare il caffé, come si dovevano pulire i tavolini e riempire in continuazione le zuccheriere, come si dovevano lavare le tazze e i piattini nel modo più rapido possibile, e dopo lo lasciò in pace, visto che il ragazzo svolgeva bene il suo lavoro.

C'erano tre cameriere. Due erano tipiche ragazze del Greenwich Village: una veniva dal Midwest, l'altra da Schenectady; seguivano entrambe corsi di recitazione, e lavoravano dalle otto all'una. La terza cameriera apparteneva alla colonia italiana, si chiamava Barbara Costa, aveva diciassette o, al massimo, diciott'anni, e lavorava tutti i giorni a orario completo. Era una ragazza graziosa, che lavorava bene e non perdeva tempo a parlare con i ragazzi del Village, che venivano a sedersi nel caffé nelle prime ore del pomeriggio, e restavano là dentro per ore e ore, dòpo aver bevuto un solo caffé, senza che nessuno li cacciasse via, perché fino a quando non arrivava l'ora di punta, rimaneva sempre posto per tutti.

Siccome la ragazza prestava servizio per tutto il giorno, Lucas la conobbe meglio delle altre due. Andavano d'accordo, e nei primi giorni la ragazza insegnò a Lucas tutti i trucchi del mestiere, gli rammentò gli ordini, lo aiutò ad ambientarsi. Lucas l'apprezzò per la sua natura amichevole, la rispettò per il modo efficiente con il quale svolgeva il suo lavoro, e fu felice di aver trovato per lo meno una persona alla quale parlare, nei rari momenti in cui ne sentiva il bisogno.

Dopo un mese, Lucas si era abituato alla vita di città. Cominciò a ricordare l'intricata rete di vie, vicoli e viali che si svolgeva intorno a Washington Square, si impratichì nell'uso della sotterranea, scoprì una lavanderia economica, imparò a usare i negozi e i locali meno dispendiosi. Prese informazioni per la prosecuzione dei suoi studi, perché era quello il motivo della sua venuta a New York. Riuscì a piegare le circostanze ai suoi desideri.

Ma le parole di suo zio, le parole che il vecchio aveva pronunciato il primo giorno, alla stazione della sotterranea, continuarono a ronzargli in mente. E Lucas affrontò il problema sistematicamente, logicamente.

Aveva diciott'anni ed era nel pieno delle forze. Il suo corpo era un meccanismo praticamente perfetto, con funzioni e necessità ben definite. E l'anno che lo aspettava era l'ultimo di libertà più o meno relativa: per otto anni, poi, avrebbe dovuto occuparsi di altre cose.

Sì, se voleva trovare una ragazza, quello era il momento più opportuno. Aveva tempo, mezzi, e anche voglia di farlo. Era una cosa logica, e così Lucas cominciò a guardarsi intorno.

CAPITOLO VII

L'aereo si abbassò su Long Island, verso l'aeroporto internazionale di New York, e la hostess domandò a Rogers e all'uomo di prendere posto sui loro sedili.

L'uomo sollevò subito il bicchiere, lo portò alla bocca, e terminò di bere il suo highball. Posò il bicchiere, e la griglia protettiva scivolò al suo posto, sulla bocca. Prese un tovagliolo di carta e si pulì il mento.

«L'alcool è piuttosto dannoso per la lega di cui sono fatto, sapete» fece notare alla hostess.

Era rimasto in bella mostra per tutto il viaggio, ordinando da bere, di quando in quando, e fumando diverse sigarette. I passeggeri e l'equipaggio avevano dovuto abituarsi alla sua presenza.

«Sì, signore» rispose gentilmente la hostess.

Rogers scosse il capo. Quando si fu seduto al suo posto, accanto all'uomo, disse:

«No, se si tratta di acciaio inossidabile, signor Martino. Ho visto l'analisi del metallo di cui siete composto.»

«Sì» disse l'uomo, allacciandosi la cintura. «Avete letto l'analisi. Ma quella hostess no.» Si infilò una sigaretta tra le labbra, e la lasciò penzolare, spenta, mentre l'aereo compiva i preliminari dell'atterraggio. «Strano» disse «c'è ancora molta luce.»

L'aereo toccò terra, cominciò a rallentare, e avanzò lentamente verso la fine della pista. L'uomo si slacciò la cintura e accese la sigaretta.

«Sembra che ci siamo» disse, in tono amichevole, e si alzò. «È stato un viaggio piacevole.»

«Ottimo davvero» disse Rogers, slacciandosi la cintura. Lanciò un'occhiata a Finchley, che si trovava dalla parte opposta, e scosse il capo, con aria di sconforto, rispondendo alla muta domanda dell'agente dell'F.B.I. Non c'erano dubbi di sorta… chiunque fosse quell'uomo, Martino o no, avrebbero avuto dei guai.