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«Da questa parte, prego.» Kothu si inchinò nuovamente e lo condusse davanti a un ascensore. Un rapido sorriso sfiorò le labbra di Azarin, mentre si disponeva a seguirlo. Gli dava sempre piacere il fatto che il semplice Anastas Azarin dimostrasse di essere istruito come coloro che erano usciti dalle università. Era una cosa di cui essere orgoglioso, inoltre, sapere di avere imparato la lingua lottando contro la morte nella giungla, e non sui banchi di scuola o dalle labbra di un vecchio professore.

«Di quale entità sono le ferite dell'uomo?» domandò a Kothu, quando uscirono dall'ascensore per trovarsi in un altro atrio.

«Molto gravi. È morto, per alcuni istanti.»

Azarin si voltò di scatto.

Kothu annuì, mostrando a sua volta un certo orgoglio professionale.

«È morto nell'ambulanza. Fortunatamente, la morte non è più definitiva, in determinate circostanze.» Condusse Azarin davanti a una lunga finestra trasparente, che si apriva su una stanza dalle pareti bianche. All'interno, tra un groviglio di strumenti, giaceva un uomo, che indossava ancora i brandelli dei propri abiti, incredibilmente insanguinati.

«Ormai è salvo» spiegò Kothu «vedete, il cuore artificiale mantiene la circolazione sanguigna, e il rene artificiale funziona perfettamente. Da quella parte ci sono i polmoni artificiali.» Le macchine erano sistemate irregolarmente, dove erano state portate dalle loro posizioni originali, contro la parete. Dottori e infermiere si trovavano intorno a esse, e ne sorvegliavano attentamente il funzionamento, mentre altri dottori erano intorno all'uomo, intenti a fissare i capillari sanguigni e ad arrestare l'emorragia della spalla sinistra, dalla quale era stato amputato il braccio. Mentre Azarin guardava, altri infermieri sistemavano già le macchine nelle posizioni esatte. Lo stato di emergenza era passato. Le cose stavano assumendo un corso più regolare. Un'infermiera diede un'occhiata all'orologio, si avvicinò alla parete, e sostituì un'ampolla di sangue esaurita con una nuova.

Azarin aggrottò le sopracciglia per nascondere il suo nervosismo. Aveva provato una certa difficoltà nell'osservare l'orribile scena. Ogni uomo dopotutto, era stato creato con le interiora nascoste sotto la pelle, come si conveniva. Guardare quell'uomo, non era normale, ecco tutto. Gli altri non mostravano i loro organi intenti a svolgere il loro disgustoso lavoro, per tenere in vita il corpo. Vedere un uomo del genere, praticamente squartato, con uomini dalle conoscenze misteriose e… sì, spaventose… come Kothu, intenti a riparare gli organi schifosi nascosti dalla pelle levigata, bella e pulita…

Azarin diede un'occhiata di sbieco al piccolo medico. Kothu avrebbe potuto fare le stesse cose innominabili anche a lui, con la stessa facilità. Anastas Azarin avrebbe potuto trovarsi al posto di quell'uomo, orrendamente esposto, con tipi come Kothu intenti a squartarlo a loro piacere.

«Ottimo, direi» abbaiò Azarin «ma per me è inutile. A meno che non possa parlare.»

Kothu scosse il capo.

«Ha il cranio sfracellato, e ha perduto quasi tutti gli organi sensori. Ma questo è un semplice equipaggiamento di emergenza, come se ne possono trovare in qualsiasi ospedale da campo. Nel giro di due mesi, sarà di nuovo a posto, come nuovo.»

«Due mesi

«Colonnello Azarin, vi chiedo di guardare ciò che si trova là dentro: può essere definito un uomo, solo con molto sforzo.»

«Sì… sì, certo, è una fortuna che sia vivo, in fondo. Non può essere trasportato altrove, immagino? Nel grande ospedale di Novoya Moskva, per esempio?»

«Lo ucciderebbe.»

Azarin annuì. Be', con le disgrazie, c'era anche qualcosa di buono. Martino non gli sarebbe stato strappato. Sarebbe stato Anastas Azarin a lavorarselo… sarebbe stato Anastas Azarin a togliere il miele dal tronco.

«Benissimo… fate del vostro meglio. E in fretta.»

«Certo, colonnello.»

«Se avete bisogno di qualcosa, venite da me. Vi fornirò tutto l'aiuto possibile.»

«Sì, signore. Grazie.»

«Non mi dovete ringraziare. Voglio quest'uomo. Dovrete fare del vostro meglio perché io possa averlo.»

«Sì colonnello.» Il dottor Kothu si inchinò. Azarin annuì e si allontanò, prese l'ascensore e percorse più lentamente l'atrio.

All'esterno, stava arrivando Yung con un plotone di soldati della polizia militare. Azarin gli fornì istruzioni dettagliate sul servizio di sorveglianza, e ordinò che il reparto in cui si trovava lo scienziato venisse isolato dal resto dell'ospedale. E la sua mente cercava di immaginare le possibili vie di diffusione della notizia. Il personale dell'ambulanza doveva essere messo a tacere, quello dell'ospedale avrebbe potuto parlare, e perfino alcuni pazienti avrebbero potuto farsi un'idea dell'accaduto. Doveva turare tutte queste possibili falle. Azarin ritornò alla sua automobile, consapevole della complessità del suo lavoro, dell'abilità necessaria a svolgerlo bene, e del fatto che, prima o poi, Rogers, l'americano, avrebbe reso inutile ogni suo sforzo.

Passarono cinque settimane. Cinque settimane, durante le quali Azarin fu incapace di pensare ad altro, e delle quali Martino non ricordò mai nulla.

Ogni volta che Martino cercava di mettere a fuoco la vista, qualcosa ronzava debolmente nei suoi seni frontali. Cercò di comprendere il perché, ma si sentiva terribilmente debole, come se fosse stato privo di ossa, e la sensazione era così sconcertante che rimase sveglio per un'ora prima di riuscire a distinguere le cose.

Per un'ora giacque immobile, in ascolto, e notò che nemmeno le sue orecchie funzionavano normalmente. I suoni giungevano e sparivano troppo velocemente; le loro sorgenti erano multiple. Il suo volto provava una lieve fitta di dolore quando un nuovo suono lo raggiungeva. Era inesplicabile.

C'era un apparecchio nella sua bocca. La lingua batteva contro un metallo duro e contro della plastica. Una stecca, pensò. Mi sono fratturato la mandibola. Provò, ma la mandibola si muoveva normalmente. Doveva trattarsi, allora, di un nuovo apparato a trazione.

Qualunque cosa fosse, gli impediva di stringere i denti. Quando cercò di chiudere la bocca, sentì soltanto pressione e resistenza, invece che il solito contatto dei denti.

Le coperte gli sembravano ruvide e calde, e sentiva un'oppressione al petto. Era fasciato, una fasciatura voluminosa. La spalla destra gli fece male, quando cercò di muoverla, ma si mosse. Aprì e chiuse le dita della mano destra. Bene. Cercò di muovere il braccio sinistro. Niente. Male.

Giacque immobile per qualche tempo, e finalmente accettò il fatto di aver perduto il braccio. Dopotutto, non era mancino, e se aveva perduto soltanto il braccio, poteva ritenersi fortunato. Continuò a provare, muovendo i fianchi, piegando la gamba, le ginocchia… nessuna traccia di paralisi.

Era stato fortunato, e ora si sentiva molto meglio. Cercò di mettere a fuoco la vista, e nuovamente si udì il leggero ronzìo: ma stavolta riuscì nel suo intento. Sollevò lo sguardo e vide un soffitto azzurro, con una lampada azzurra che splendeva sopra di lui. La luce gli dava fastidio, e dopo un attimo si accorse di non aver socchiuso gli occhi, così lo fece deliberatamente. Tutto divenne giallo.

C'era stato un mutamento sensibilissimo. Abbassò gli occhi. Coperte gialle, pareti gialle. Socchiuse nuovamente gli occhi, e la stanza piombò nell'oscurità. Guardò il soffitto, e vide un vago lucore là dove si era trovata la luce, come se avesse guardato attraverso un paio di occhiali neri molto spessi.

Non riusciva a sentire il contatto del cuscino dietro alla nuca. Non poteva sentire gli odori caratteristici di un ospedale. Socchiuse nuovamente gli occhi, e la stanza apparve chiaramente. Si sforzò al massimo, e con la coda dell'occhio proprio ai margini del suo campo visivo, vide due fessure che si curvavano in quella che sembrava una lastra metallica. Sollevò la mano destra per toccarsi il volto.