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Azarin fece forza a se stesso, e si avvicinò al letto. Il suo volto si atteggiò a sorriso.

«Come state?» domandò in inglese, tendendo la mano. La “cosa” sul letto tese la mano sana.

«Sto meglio, grazie» disse in tono neutro. «Piacere.»

La mano, per lo meno, era umana. Azarin la strinse con calore.

«Il piacere è tutto mio. Volete parlare con me? Dottor Kothu, portatemi una sedia, per favore. Mi siederò e parleremo.» Attese fino a quando Kothu non ebbe sistemato la sedia. «Grazie. Ora potete lasciarci. Vi chiamerò, quando vorrò andarmene.»

«Certo, colonnello. Buongiorno, signore» disse Kothu alla cosa sul letto, e se ne andò.

«Ora, professor Martino, possiamo parlare» disse in tono discorsivo Azarin, sedendosi. «Ho aspettato che miglioraste. Spero di non darvi troppo disturbo, ma comprenderete, ci sono state molte cose che sono rimaste ferme nel frattempo… rapporti da completare, dati mancanti, e tutto il resto.» Scosse il capo. «Scartoffie, signore. Le solite scartoffie.»

«Certo» disse Martino. Azarin trovò difficile collegare quella voce perfettamente normale al volto mostruoso. «Immagino che i miei compatrioti abbiano importunato i vostri, domandando il mio ritorno, e questo significa una montagna di scartoffie, come dite voi, da entrambe le parti. Giusto?»

È intelligente, pensò Azarin. Dopo un istante, cercava già di scoprire se i suoi stavano facendo delle pressioni per farlo tornare indietro. Eccome, Dio solo sapeva, se il tono di voce di quelli di Novoya Moskva significava qualcosa!

«Le scartoffie esistono ed esisteranno sempre» rispose, con un sorriso. «Vedete, io sono responsabile di questo settore, e i miei superiori vogliono dei rapporti.» Così, ora, puoi immaginare quello che vuoi. «Vi trovate a vostro agio? Spero che tutto sia come desiderate. In qualità di comandante di questo settore, ho ordinato che vi fosse fornita la più completa assistenza medica possibile.»

«Sto benissimo, grazie.»

«Sono certo che voi, come scienziato, sarete rimasto più impressionato dal lavoro dei medici di quanto non sia rimasto io, che sono un semplice soldato.»

«Sono specialista di elettronica, colonnello, e non di servomeccanismi.»

Ah. Così siamo pari.

Pari? Un corno, pensò Azarin. Perché Martino non aveva dato il minimo segno di poter essere utile. Dopotutto, non importava molto quello che Martino non riusciva a scoprire. E invece lui…

Quei primi colloqui erano raramente utili, di per se stessi. Ma essi preparavano tutto ciò che seguiva. Era in quel momento che Azarin doveva decidere quale tattica usare nei riguardi di quell'uomo. Era adesso che Azarin doveva tracciare il disegno, che la lotta iniziava.

Ma come si potevano comprendere i pensieri di quell'uomo se il suo volto era una maschera metallica… una cosa curva, immobile, che non mostrava alcun sentimento? Né ira, né paura, né indecisione… né debolezza!

Azarin aggrottò la fronte. Eppure, alla fine, avrebbe vinto. Avrebbe squarciato quella maschera, e da essa sarebbero usciti i segreti da lui desiderati!

Se ne avrò il tempo, si disse. Ora sono sei settimane. Sei settimane. Quanto durerà la pazienza degli Alleati? Quanto resisterà Novoya Moskva?

Guardò quasi con ira l'uomo. Era colpa sua, se quella faccenda incredibile era iniziata.

«Dite, professor Martino» disse «non vi domandate per quale motivo vi trovate qui, in uno dei nostri ospedali?»

«Immagino che siate arrivati prima delle nostre squadre di soccorso.»

Ormai era chiaro. Quel Martino non intendeva offrirgli alcuna breccia.

«Sì» sorrise «ma non vi aspettavate che il governo Alleato prendesse delle precauzioni maggiori? Non avrebbero dovuto sistemare più vicino le squadre di soccorso?»

«Temo di non averci pensato molto.»

Era così, dunque. L'uomo rifiutava di rivelare se il K-88 era stato un progetto nel quale un'esplosione avrebbe potuto verificarsi facilmente o meno.

«E poi, cosa avete pensato, professore?»

L'uomo sul letto si strinse nelle spalle.

«Niente d'importante. Aspetto solo di uscire di qui. Sono rimasto anche troppo, vero? Immagino che non potrò essere trattenuto per molto tempo ancora.»

Ora la cosa cercava di irritarlo, deliberatamente. Azarin pensava con furore alle settimane sprecate.

«Mio caro professore, siete libero di andarvene, quasi subito.»

«Sì… esatto. Quasi.»

Così, dunque. La cosa si rendeva perfettamente conto della situazione, e non cedeva… e il suo volto non si sarebbe imperlato di sudore, lui si sarebbe trovato a brancolare nel buio…

Azarin si accorse di sudare copiosamente.

Bruscamente, Azarin si alzò in piedi. Non serviva a nulla continuare. Ormai il quadro era già abbozzato, lo scopo di quella conversazione era stato ottenuto, non si poteva fare altro, e lui non poteva più sopportare la vista di quel mostro.

«Devo andare. Ci rivedremo.» Azarin si inchinò. «Buongiorno, professor Martino.»

«Buongiorno, colonnello Azarin.»

Azarin appoggiò la sedia alla parete e uscì.

«Per oggi ho finito» brontolò, rivolto al dottor Kothu, che lo aveva aspettato; e ritornò nel suo ufficio, e rimase per tutto il pomeriggio dietro la scrivania, a bere e a fissare il telefono.

Il dottor Kothu entrò, lo visitò, e se ne andò. Martino rimase sdraiato sul letto a pensare.

Azarin gli avrebbe dato fastidio, pensò, se il tempo fosse stato sufficiente. Ma per quanto tempo lo avrebbero lasciato agire? Possibile che il Governo delle Nazioni Alleate non cercasse di farlo tornare indietro?

Ma soprattutto Martino pensava al K-88. Aveva già capito la natura dell'incidente, dovuto a un'improbabile combinazione di fattori, culminata nell'esplosione. Ora, come aveva fatto nelle ultime ore, la sua mente cercava di elaborare un nuovo mezzo con il quale assorbire lo spaventoso calore emanato dal K-88.

Sentì che i suoi pensieri si allontanavano da questo argomento, e ritornavano a occuparsi delle sue condizioni. Sollevò il nuovo braccio che gli era stato applicato e lo osservò, affascinato, prima di riuscire ad abbandonare questo pensiero, con uno sforzo di volontà. Lasciò ricadere il braccio sulle lenzuola, fuori dal suo campo visivo, e il letto vibrò leggermente al contatto.

Quanto dovrò restare in questo posto?, pensò. Kothu gli aveva detto che avrebbe potuto alzarsi presto. Ma a che cosa gli sarebbe servito, questo, se avevano intenzione di trattenerlo da quella parte del confine per un periodo indefinito?

Si chiese quanto sapessero i sovietici sul K-88. Probabilmente, quel che era bastato a convincerli a catturarlo e interrogarlo, alla prima occasione. Se non avessero saputo nulla, non si sarebbero mai occupati di lui. Se avessero saputo tutto o quasi, non si sarebbero presi il disturbo di catturarlo e curarlo a quel modo.

Chissà quali erano le intenzioni dei sovietici. E i loro metodi. Si sentivano storie di ogni genere. Probabilmente, le stesse storie che i sovietici si raccontavano, a proposito dei metodi Alleati.

Aveva paura, decise. Paura di quanto gli era successo, di ciò che Kothu aveva fatto per salvarlo, della possibilità che i sovietici si impadronissero, chissà come, del K-88 servendosi di lui, dell'improvviso senso di impotenza che lo aveva pervaso.

Era forse un vigliacco? Non aveva considerato il problema, dal giorno in cui aveva appreso la differenza tra coraggio e incoscienza. L'idea che la semplice paura potesse indurlo ad agire in modo irrazionale, per lui era del tutto nuova.

Giacque immobile, e la sua mente cercò delle prove, a favore o contrarie.

Erano passati due mesi, e Azarin non sapeva ancora se il K-88 fosse stato una bomba, un raggio della morte, o un nuovo sistema per affilare le baionette.