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Aveva avuto numerosi discorsi con quella cosa, discorsi che si erano rivelati del tutto insoddisfacenti. Martino, la cosa, non cedeva. Tutto si svolgeva nei limiti della massima cortesia, e lui non otteneva nulla. Avrebbe potuto combattere contro un uomo… qualsiasi uomo. Ma un nulla dal volto imperscrutabile, simile a un incubo della foresta oscura, seduto sulla sua poltrona a rotelle, simile a una delle divinità che si adoravano nell'Oriente sconosciuto, che forse rideva di Azarin, sapendo di avvicinarsi ogni giorno alla vittoria… no, questo proprio non riusciva a tollerarlo.

Azarin ricordò la telefonata del mattino, da Novoya Moskva, e batté violentemente il pugno sulla scrivania.

Il loro uomo migliore. Sapevano che lui era il loro uomo migliore, sapevano che lui era Anastas Azarin, eppure avevano il coraggio di parlargli a quel modo! Dei burocrati che gli parlavano a quel modo!

Tutto perché volevano restituire Martino agli Alleati il più presto possibile. Se avessero dato tempo ad Azarin, sarebbe stato tutto diverso. Se Martino non avesse dovuto essere restituito, allora avrebbe potuto impiegare certi metodi particolari, e qualcosa avrebbe ottenuto, senza dubbio.

Azarin rimase immobile, dietro la scrivania, e cercò di trovare una soluzione. Qualcosa per soddisfare Novoya Moskva… per ottenere tempo, fino al momento in cui avesse potuto scoprire la maniera di trattare Martino. Ma nulla avrebbe potuto soddisfare la Direzione Centrale, a meno che a loro volta essi non avessero potuto soddisfare gli Alleati. E gli Alleati sarebbero stati soddisfatti soltanto con la restituzione di Martino.

Gli occhi di Azarin si spalancarono. La bocca gli si aprì d'incanto. Poi allungò la mano verso il telefono, e formò il numero del dottor Kothu. Rimase in attesa. Ne aveva fatto uno, perché non avrebbe potuto farne due?

Sorrise amaramente pensando che l'americano, Heywood, era l'unica persona adatta per quella missione. Lui avrebbe preferito inviare un tipo più fidato… uno dei suoi agenti, di cui conoscesse le capacità e le debolezze. Ma Heywood era l'unico. Probabilmente si sarebbe scoperto, prima o poi. Ma l'importante era che Novoya Moskva non lo avrebbe pensato. La Direzione Centrale era molto orgogliosa degli agenti stranieri, e dell'intero sistema inefficiente ed elefantiaco che li sosteneva. Pensavano che un traditore potesse essere comprato una volta sola, e gli davano piena fiducia, malgrado i numerosi fallimenti. Per una volta, Azarin fu lieto di questa mentalità assurda.

«Dottor Kothu? Sono Azarin. Se vi inviassi un uomo adatto… tutto intero, stavolta… potreste fargli ciò che avete fatto a Martino?» Ascoltò attentamente. «Esatto. Tutto intero. Vorrei che creaste un fratello di quel mostro. Un gemello.»

Quando ebbe terminato il colloquio con Kothu, Azarin chiamò Novoya Moskva, deciso e soddisfatto. Il suo volto aveva un'espressione impenetrabile, le labbra erano strette, gli occhi socchiusi. Poi il volto cominciò ad arrossarsi, a perdere l'abituale freddezza. Il sorriso che apparve sulle sue labbra fu molto diverso da quello che era abituato a mostrare agli altri, e a quello che era rimasto nei boschi, con la sua giovinezza passata. Un sorriso che lui stesso sapeva di possedere, il ricordo di un tempo remoto, oscurato dalla luce di decreti stranieri e di soli lontani.

Gli occorsero alcuni minuti per convincere la Direzione Centrale, ma Azarin non si spazientì. Presentò il suo piano, agendo con la forza e la potenza del boscaiolo che abbatte un tronco robusto con brevi è rapidi colpi di scure, sicuro che l'albero, prima o poi, cadrà.

Finalmente riappese il ricevitore, e trangugiò il bicchiere di té in pochi sorsi. L'attendente corse a riempirlo nuovamente. Gli occhi di Azarin lampeggiarono, e le labbra si curvarono in un sorriso di trionfo, perché l'uomo sapeva che ancora una volta era stato lui, Anastas Azarin, a trovare la soluzione sfuggita ai burocrati della Direzione Centrale.

Appoggiò le mani alla scrivania e si issò in piedi. Varcò una porta, e si trovò in un altro ufficio.

«Sto per scendere. Fa' preparare l'automobile» disse al suo aiutante.

Sarebbero stati necessari diversi giorni, prima che gli ordini per Heywood avessero raggiunto Washington. Ma questa parte del sistema, per lo meno, era assolutamente sicura. Inoltre, non c'era alcuna ragione per cui dovessero aspettare il suo arrivo per cominciare. Il piano di copertura era iniziato automaticamente da quel momento. Gli Alleati avrebbero trovato Novoya Moskva molto diversa, nelle trattative, ora che Azarin aveva raddrizzato le spine dorsali di molti membri della Direzione Centrale. E, di conseguenza, il telefono di Azarin sarebbe stato molto più silenzioso, e molto meno perentorio.

Bene. Tutto sistemato. Dal semplice contadino senza istruzione, Anastas Azarin. Dallo stupido che muoveva le labbra mentre leggeva. Dall'ignorante venuto dai boschi, che lavorava mentre Novoya Moskva parlava.

Gli occhi di Azarin scintillavano, quando egli entrò nella stanza di Martino, si fermò, e fissò l'uomo.

«Parleremo ancora» disse «adesso abbiamo tempo a volontà per scoprire la verità sul K-88.»

Era la prima volta che Azarin pronunciava apertamente quel nome. Vide che il corpo dell'uomo si contraeva.

La prima cosa che si perdeva in quelle condizioni, scoprì Martino, era il senso del tempo. Non ne fu particolarmente sorpreso, dato che un'esperienza completamente sconosciuta non poteva contenere gli elementi consueti, dei quali l'uomo si serviva per misurare il tempo. La stanza non aveva finestre, né orologi, né calendari. Queste, tra le cose mancanti, erano le più semplici e le più scontate. Poi, non c'era alcun cambiamento, nel suo ritmo di vita. Non c'erano pause per mangiare o dormire, e quando la fame e il sonno sono costanti, non forniscono alcun aiuto. La stessa stanza, che si doveva trovare nella direzione settoriale di Azarin, era costruita in modo tale da non offrire indizi. Era rettangolare, di cemento uniforme dal pavimento al soffitto. Martino camminava da un capo all'altro di essa, e la parete verso la quale camminava era quasi identica a quella che si trovava alle sue spalle, nei sia pur minimi particolari. Mentre camminava, passava in mezzo a due scrivanie di quercia, identiche, una di fronte all'altra, e dietro a ciascuna scrivania sedeva un individuo vestito di un'uniforme grigioverde. Anche gli uomini si somigliavano, e alle loro spalle si aprivano due porte uguali. C'era una lampada, esattamente nel centro del soffitto. Martino non aveva la minima idea a proposito della porta dalla quale era entrato, né della parete verso la quale si era diretto all'inizio.

Quando passava in mezzo alle scrivanie era invariabilmente l'uomo che si trovava alla sua destra a formulare la prima domanda. Poteva trattarsi di tutto: “Qual è il vostro secondo nome?” oppure “Di quanti pollici è composto un piede?”. Le domande erano insignificanti, e le sue risposte non erano registrate. Gli uomini dietro alle scrivanie, che cambiavano a intervalli apparentemente irregolari, ma che sembravano sempre, chissà per quale motivo, terribilmente simili, non si curavano neppure del fatto che lui rispondesse o meno. Se ricordava bene, all'inizio, per un po', non aveva neppure risposto. Dopo, rabbiosamente aveva cominciato a rispondere degli spropositi: “Newton”, oppure “otto”. Ma ora era molto meno faticoso rispondere la verità.

Sapeva quello che gli stava accadendo. A lungo andare, il cervello si sarebbe creato un vero e proprio siero della verità, per reagire ai veleni della stanchezza che lo raggiungevano. L'equazione era: “Risposte esatte = sollievo”. Non c'era nessuno sfogo, neppure quello del dolore fisico, che avrebbe potuto rivelarsi utile. C'era solo quel continuo camminare attraverso un mondo privo di significato.

Era questo che gli dava più fastidio. Gli uomini dietro alle scrivanie non lo degnavano di alcuna attenzione, a meno che non tentasse di fermarsi. Altrimenti, si limitavano a porre le loro domande, guardandosi tra loro, senza degnarlo di uno sguardo. Sospettò che i due non sapessero né chi lui fosse né per quale motivo si trovasse laggiù. In seguito, ne fu certo. Stavano giocando tra di loro, e non si occupavano di lui. Si servivano di lui perché ogni gioco che si svolgeva tra due persone aveva bisogno di una palla. Per loro non significava nulla il fatto che lui fornisse risposte esatte, perché non si trovavano in quella stanza per giudicare le sue risposte.