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Nell'ultimo chilometro non scivolarono sulla ringhiera, ma scesero i gradini due alla volta in lunghi salti regolari. L'aveva ordinato Norton perché serviva a esercitare i muscoli di cui avrebbero dovuto per forza servirsi in seguito. Quando la scala terminò, così bruscamente da lasciarli interdetti, si trovarono davanti l'enorme distesa grigia della pianura, debolmente illuminata dal lontanissimo raggio del riflettore e che si perdeva nel buio a poche centinaia di metri di distanza.

Norton seguì il fascio di luce fino alla sua sorgente lontana più di otto chilometri, in alto, sull'asse. Sapeva che Mercer li stava seguendo col cannocchiale e agitò la mano in segno di saluto.

— Qui il Comandante — riferì per radio. — Tutto bene. Nessun problema. Tutto prosegue secondo i piani.

— Bene — rispose Mercer. — Vi osserviamo.

Un attimo di silenzio, poi la voce del Comandante in seconda: — Non basta, Comandante — disse. — Sapete che radio e televisione ci stanno tempestando da una settimana. Non esigono un romanzo, ma qualche particolare in più potreste anche fornircelo.

— Ci proverò — rispose Norton. — Ma ricordate che per ora non si vede ancora niente. È come… be', come stare su un palcoscenico enorme e copletamente buio, con un unico riflettore. I primi cento scalini della gradinata salgono fino a confondersi col buio sovrastante. Da quel po' che possiamo vedere, la pianura sembra perfettamente piatta. La curvatura è così ampia da essere impercettibile in una zona limitata. Non c'è altro.

— Impressioni?

— Fa molto freddo e siamo contenti di indossare le tute termiche. E c'è un silenzio che non ha paragoni sulla Terra e nemmeno nello spazio. Qui i suoni vengono tutti inghiottiti dall'enorme spazio che ci circonda. Non ci sono echi. È strano, ma penso che ci abitueremo.

— Grazie, Comandante. Joe, Boris, voi non avete niente da dire?

Joe Calvert, cui non mancava mai la parola, fu ben lieto di dire la sua.

— Non posso fare a meno di pensare che questa è la prima volta che possiamo camminare su un mondo, respirandone l'atmosfera naturale, anche se naturale non è la parola più adatta per un posto come questo. Ma Rama deve somigliare al mondo dei suoi costruttori. Le nostre astronavi, infatti, cosa sono, se non Terre in miniatura? Due soli esempi non bastano, d'accordo, ma non vi sembra di poter dedurre che tutte le forme di vita intelligente sono consumatrici d'ossigeno? Da quanto possiamo dedurre dai loro manufatti, direi che i ramani erano umanoidi, probabilmente alti una volta e mezzo noi. Non sei d'accordo, Boris?

Cosa sarebbe saltato fuori, adesso? si chiese Norton. Il tenente Boris Rodrigo era un mistero per tutti i suoi compagni di bordo. Il tranquillo e educato ufficiale addetto alle comunicazioni era simpatico a tutti, ma non dava confidenza a nessuno, non partecipava ai passatempi comuni… insomma marciava al ritmo di un'altra musica.

Il che era vero, in quanto Rodrigo era membro zelante della Quinta Chiesa di Cristo Cosmonauta. Norton non aveva mai saputo che fine avessero fatto le altre quattro, ed era altrettanto all'oscuro circa i riti e le cerimonie di quella confessione. Ma il dogma fondamentale era noto a tutti: i membri della Quinta Chiesa erano fermamente convinti che Gesù Cristo fosse un visitatore giunto dallo spazio, e su quella ipotesi avevano costruito tutta una teologia.

Non c'era da meravigliarsi se molti adepti di quel culto lavoravano nello spazio. Ed erano tutti abili, coscienziosi e fidatissimi. Tutti li rispettavano e avevano simpatia per loro, anche perché non cercavano mai di convertire gli altri. Eppure c'era qualcosa di strano in loro, qualcosa che li isolava, che li rendeva diversi. Norton non riusciva a capacitarsi come uomini impegnati nella scienza e nella tecnica potessero credere davvero una sola delle cose che, a quanto aveva sentito dire, i Cosmocristiani accettavano come fatti incontrovertibili.

La domanda di Joe nascondeva forse un tranello, ma Rodrigo, con la sua solita cautela, rifiutò di cadere in trappola.

— Certamente respirano ossigeno — disse, — e probabilmente erano umanoidi. Ma aspettiamo, prima di dirlo con sicurezza. Se la fortuna ci aiuta, potremo scoprire com'erano. Forse ci sono quadri, o statue… e magari cadaveri, in quelle città. Posto che siano città, naturalmente.

— E la più vicina dista solo otto chilometri — osservò speranzoso Calvert.

, pensò Norton, otto chilometri all'andata e altrettanti al ritorno e in più quelle scale interminabili. Possiamo correre questo rischio?

Fra i progetti d'esplorazione c'era una rapida puntata alla città che avevano chiamato Parigi, e adesso toccava a lui decidere se andarci subito. Avevano riserve di acqua e di viveri per ventiquattr'ore, la luce del riflettore installato sul mozzo poteva seguirli fin laggiù, e su quella pianura liscia e uniforme pareva impossibile incorrere in qualche incidente. L'unico pericolo era la stanchezza. Una volta arrivati a Parigi, cosa che potevano fare facilmente, potevano fermarsi a far fotografie, raccogliere manufatti ed esplorare la città, o era chiedere troppo alle loro forze?

Ma valeva la pena di correre quel piccolo rischio. Il tempo stringeva. Entro poche settimane Rama avrebbe raggiunto il perielio e la Endeavour doveva allontanarsi molti giorni prima se non voleva finire arrosto.

Comunque, non spettava solo a lui decidere. Su, nell'astronave, la dottoressa Ernst stava esaminando i responsi dei sensori biotelemetrici attaccati al suo corpo. Se lei diceva che era meglio tornare subito, avrebbero ubbidito.

— Laura, cosa ne pensi?

— Riposate per mezz'ora, e prendete una tavoletta energetica da cinquecento calorie. Poi andate pure.

— Grazie, dottoressa — intervenne Calvert. — Adesso posso morire felice. Ho sempre desiderato vedere Parigi. Montmartre, aspettami che arrivo.

13

Dopo tutte quelle scale interminabili, era un lusso inusitato camminare di nuovo su una superficie orizzontale. Davanti a loro, il terreno si stendeva piatto. A destra e a sinistra, ai limiti della zona illuminata, si notava appena la curvatura. Era come se stessero percorrendo il fondo di una valle molto ampia, e non riuscivano a capacitarsi che in realtà stavano arrampicandosi nell'interno di un gigantesco cilindro e che al di là di quella piccola oasi di luce il terreno si curvava verso l'alto fino a incontrare, anzi, a diventare cielo.

Nonostante l'ottima disposizione d'animo, mancò poco che il silenzio assoluto di Rama cominciasse a opprimerli. Il rumore di ogni passo, il suono di ogni parola svanivano immediatamente nel vuoto senza eco.

Joe Calvert finì col non poterne più dopo che avevano percorso sì e no mezzo chilometro.

Fra le tante doti che possedeva, c'era un talento più raro di quanto si potesse immaginare: l'arte di saper fischiare, e per di più era capace di ripetere i motivi conduttori di quasi tutti i film degli ultimi duecento anni. Cominciò con un'aria adatta alle circostanze: Ehi-ho! Ehi-ho! andiamo a lavorar, poi scoprì che non gli riuscivano bene le note basse della marcia dei sette nani di Disney e passò al motivo dal film Il ponte sul fiume Kwai. Intonò di seguito un'altra decina di arie da film celebri, culminando con il tema di Sod Krassman dal famoso Napoleone girato nel ventesimo secolo.

Fu un'ottima esibizione, ma non servì a tirar su il morale. Rama esigeva la grandiosità di Bach o di Beethoven, di Sibelius o di Tuan Sun, non le canzonette popolari. Norton stava per dire a Joe di risparmiare il fiato per non affaticarsi inutilmente, quando il giovane ufficiale si rese conto dell'inutilità dei suoi tentativi. Dopo di che, salvo qualche sporadica comunicazione con l'astronave, proseguirono la marcia in silenzio. Rama aveva vinto il primo round.