Solo allora Norton capì cosa stava succedendo: il ghiaccio cominciava a spezzarsi. Da giorni, forse da settimane, il mare aveva cominciato a fondersi in profondità. Era difficile concentrarsi a causa degli schianti che si susseguivano riecheggiando, ma lui si sforzò di trovare una causa logica a quelle drammatiche convulsioni. Quando sulla Terra un lago o un fiume ghiacciati cominciano a sciogliersi, non succedeva niente di simile. Ma certo! Adesso capiva tutto: questo mare si fondeva a partire dal fondo poiché era lì che lo aveva ragiunto il calore del Sole dopo aver attraversato lo spessore dello scafo di Rama. E quando il ghiaccio si trasforma in acqua occupa un volume minore.
Perciò il mare era andato contraendosi al di sotto degli strati superiori ancora gelati, che erano venuti a trovarsi privi di sostegno. La fusione era continuata finché adesso la banchisa che circondava l'equatore di Rama stava crollando come un ponte privato del pilone centrale. E si frantumava in migliaia e migliaia di isole e isolette galleggianti, che si accavallavano e si schiantavano una contro l'altra, finché non si fondevano a loro volta. Norton si sentì gelare al pensiero che aveva progettato di raggiungere New York con la slitta.
Il tumulto ebbe presto fine, come se acqua e ghiaccio avessero raggiunto un accordo. Nel giro di poche ore, con l'aumento continuo della temperatura, l'acqua avrebbe vinto, e le ultime tracce di ghiaccio sarebbero scomparse. Ma poi, quando lasciata l'orbita solare Rama avesse ripreso il suo viaggio nella notte siderale, il ghiaccio sarebbe stato il vero e decisivo vincitore.
Norton chiamò la pattuglia che si trovava più vicino al mare e con suo grande sollievo Rodrigo rispose subito. No, l'acqua non era arrivata fino a loro. Le ondate non avevano superato l'orlo della scarpata. — Adesso almeno sappiamo perché l'hanno fatta, quella scarpata — disse calmo.
Norton annuì in silenzio, aggiungendo fra sé che questo però non spiegava come mai la scarpata opposta fosse alta dieci volte di più.
Il riflettore continuava a illuminare il mare che andava calmandosi. La ribollente schiuma bianca non correva più allontanandosi dalle isole di ghiaccio sommerse. Dopo un quarto d'ora era tornata la calma.
Ma Rama non era più silenzioso. Destatosi dal suo sonno, parlava a tratti con la voce del ghiaccio che finiva di sgretolarsi o degli ultimi icebergs che si scontravano schiantandosi.
La primavera è arrivata un po' in ritardo, pensò Norton, ma almeno l'inverno è finito.
Ed era tornata la brezza, più forte di prima. Rama l'aveva avvertito: era ora di andarsene.
Arrivato a metà scala, Norton fu contento, una volta di più, che le tenebre nascondessero il panorama sopra e sotto di lui. Sebbene sapesse di dover salire ancora più di diecimila gradini, e potesse immaginare la ripida curva ascendente, il fatto di vederne in realtà solo una minima parte rendeva più sopportabile la prospettiva.
Era alla sua seconda salita, e aveva imparato a non cedere alla tentazione di arrampicarsi troppo in fretta approfittando della scarsa forza di gravità. Infatti, se non si procedeva a ritmo lento e costante, dopo qualche migliaio di scalini cominciavano a dolore le cosce e le caviglie. Muscoli di cui nessuno aveva mai sospettato l'esistenza si mettevano a protestare, ed era necessario riposarsi sempre più spesso e più a lungo. Verso la fine della prima ascesa, Norton aveva passato più tempo riposando che arrampicandosi, e non era bastato. Aveva sofferto per due giorni di crampi alle gambe, e sarebbe stato costretto all'immobilità se non si fosse trovato a bordo dell'astronave in totale assenza di gravità.
Stavolta cominciò a salire adagio, come un vecchio. Era stato l'ultimo a lasciare la pianura, e gli altri lo precedevano di circa mezzo chilometro. Pensava che, una volta sul mozzo, avrebbero potuto aspettare che cessassero le perturbazioni atmosferiche, per ridiscendere subito e non perdere così altro tempo. Forse lassù regnava una calma assoluta, come nell'occhio di un ciclone.
Ma ecco che ancora una volta balzava alle conclusioni facendo pericolose analogie con la Terra. La meteorologia di un intero mondo, anche in condizioni che si ripetono con regolarità, è una cosa estremamente complessa. Dopo secoli e secoli di studio i meteorologi terrestri non erano ancora in grado di fare sempre previsioni esatte. E Rama, oltre a essere un mondo completamente diverso, aveva subito cambiamenti rapidi, perché la sua temperatura era aumentata di parecchi gradi in poche ore. Eppure non si vedevano ancora i segni premonitori degli uragani previsti, anche se di tanto in tanto si levava un alito di vento.
Dopo essere risaliti per cinque chilometri, equivalenti a due chilometri terrestri scarsi, si fermarono a riposare per un'ora al terzo livello, a tre chilometri dall'asse, per ristorarsi con cibo e bevande e massaggiare i muscoli indolenziti. Era l'ultimo punto in cui potevano respirare naturalmente, poi dovevano indossare le maschere a ossigeno, che avevano lasciato su quel ripiano, come gli antichi scalatori dell'Himalaya prima di affrontare l'ultimo tratto di salita.
Un'ora dopo, al termine della gradinata, cominciò l'arrampicata dalla scala a pioli. Per fortuna quell'ultimo chilometro di ascesa verticale aveva un campo gravitazionale ridottissimo. Mezz'ora di riposo, controllo dei respiratori e delle bombole, e poi erano pronti per il balzo finale.
Norton si assicurò che tutti i suoi uomini lo precedessero a intervalli di venti metri l'uno dall'altro. La salita da un piolo all'altro era lunga e noiosa ed era meglio non pensare a niente e avanzare contando i pioli: cento, duecento, trecento, quattrocento…
Era arrivato al milleduecentocinquantesimo, quando si accorse improvvisamente che c'era qualcosa che non andava. La luce che brillava sulla superficie verticale su cui stava arrampicandosi aveva cambiato colore ed era troppo forte.
Norton non ebbe il tempo di chiamare i suoi uomini. Tutto accadde in meno di un secondo.
Con uno schianto silenzioso, la vivida luce dell'alba illuminò Rama.
18
La luce era talmente abbagliante, che per un minuto intero Norton dovette stringere gli occhi. Poi si arrischiò a socchiuderli, guardando la parete metallica a pochi centimetri dalla sua faccia. Ammiccò più volte in attesa che si asciugassero le lacrime che si erano formate, e poi si voltò lentamente ad affrontare l'alba.
Resistette solo per qualche secondo prima di essere costretto a richiudere gli occhi. Non era tanto la luce abbagliante a sconvolgerlo (sapeva che a poco a poco ci si sarebbe abituato) quanto lo spettacolo di Rama, visibile per la prima volta in tutta la sua grandiosità.
Norton sapeva già cosa avrebbe visto, eppure rimase sbalordito e cadde in preda a uno spasimo di tremito incontrollabile. Strinse forte le mani sul piolo con la disperazione di un naufrago che si aggrappa a un salvagente. I muscoli degli avambracci si irrigidirono, ma quelli delle gambe, già provati da ore di faticosa salita, parevano sul punto di cedere. Se non si fosse trovato in un ambiente a bassissima attrazione gravitazionale, sarebbe caduto.
Poi, i lunghi allenamenti a cui era stato sottoposto produssero il loro effetto suggerendogli di ricorrere al primo rimedio contro il panico. Sempre tenendo gli occhi chiusi e sforzandosi di non pensare al mostruoso spettacolo che lo circondava, cominciò ad aspirare lunghe boccate, riempiendosi i polmoni di ossigeno per liberare l'organismo dai veleni della stanchezza.
Poco dopo cominciò a sentirsi meglio, ma prima di riaprire gli occhi si sforzò di staccare la destra dal piolo, e non fu un'impresa da poco perché la mano si rifiutava di ubbidire, l'abbassò all'altezza della cintura e agganciò la cinghia del respiratore al piolo. Adesso, qualunque cosa potesse succedere, non sarebbe precipitato.
Respirò ancora a fondo parecchie volte e, sempre a occhi chiusi, accese la radio. — Qui il Comandante — disse, augurandosi che la sua voce avesse un tono normale. — Tutto bene?